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articoli di A.K. Coomaraswamy tradotti in italiano: - Lîlâ o il gioco - Shri Ramakrishna e la tolleranza religiosa - Il Vedānta E La Tradizione Occidentale dal Fusus al Hikam di Muhid-din Ibn 'Arabi Il sigillo della saggezza di Adamo

domenica 9 ottobre 2011

Le icone del sonno

LE ICONE DEL SONNO

GRAZIA MARCHIANO'

« O SONNO, NON SEI NÉ VIVO NÉ MORTO, FETO IMMORTALE DEGLI DÈI
TUA MADRE È VARUNÀNÌ, TUO PADRE È YAMA, IL TUO NOME È ARARU ».
ATHARVA VEDA VI, 46

L'invocazione al Sonno nell'Atharva Veda VI, 46 inaugura una lunga consuetudine del pensiero indiano col tema onirico.A una complessa filosofia del sogno nell'Advaita Vedānta e ne! Sāмkhya1, affiancata da uno specifico yoga del sonno (yoga nidrā)2, corrisponde nei sistemi buddhisti di «risveglio» una vera e propria strategia dell'immaginazione onirica che raggiunge il suo acme operativo nell'indirizzo vajrayāna del buddhismo tibetano. Lo yoga del sogno di Nāropa (secolo XII) e i trattati di Longchempa sull'«arte di sognare» (secolo XIV)3, sigillano un millennio di ricerca sapienziale che per esprimersi in tutta l'ampiezza delle sue risonanze semantiche, si è costantemente appoggiata all'immagine. L'iconolatria in Tibet, in India e nelle terre buddhiste, prima che una funzione del culto, è stata infatti una necessità dottrinaria - elaborare un insieme di acconci mezzi contemplativi (sādhanā e upāya), per facilitare l'accesso alle zone più impervie del logos metafisico. Così, la dottrina pan-indiana del sogno ha trovato due esemplari vie illustrative, sia attraverso lo scavo gnoseologico, sia con il ricorso a moduli costanti dell'iconografia nella pittura e nella scultura.

* * *

Se, conformemente alla lettera del passo, si volesse situare l'ipostasi del Sonno in una delle due categorie di deità preposte all'influenza sul mondo sensibile, gli Asura o dèmoni, e i Deva o dèi, vediamo che il marchio del nome Araru confina il Sonno certamente nella prima schiera: Araru è uno yakşa, un dèmone « dai quattro piedi », e la sua ambigua natura si scorge in quello stare demonicamente sospeso tra vita e morte, partecipe sia della natura materna — associata alla vitalità germinante dalle acque la cui ipostasi è Varuna, sia della natura paterna associata alla morte — Yama-Mrtyu ne è infatti il sovrano.
Come yaksa, Araru esercita inoltre la vigilanza sulla duplice soglia, quella «verso l'alto», spalancata sulla veglia, e quella «verso il basso», spalancata sull'oblio ed è poi tecnicamente il guardiano dei sogni. Nella letteratura post-vedica le tracce dei caratteri démonici del sonno persistono nella definizione che del termine si riscontra nello Satapatha Bràhmana. Per il dormiente svapna (che designa sia il sonno che il sogno)4 equivale a un farsi possedere o a un addentrarsi in ciò che è intrinsecamente proprio (svapy-aya)5. Codesta introiezione e immersione dentro se stessi acquista nelle metafisiche del sāмkhya e del vedānta monistico una inconfondibile connotazione gnoseologica. L'«entrare in sé» largito dal sonno, permette al dormiente di conoscere il lato nascosto del suo essere, inaccessibile nello stato di veglia, e di scorgere la «non-differenza»6 tra gli aspetti apparentemente antitetici della realtà: vita-morte, essere-non-essere, scenari di veglia e ombre del sogno.
Il terzo momento di questo addentramento è l'esperienza beatifica. Dell'uomo immerso nel sonno profondo (suśupti), la Māndukya upanişad dice che, essendosi unificato (ekibhuta), sì è « fatto beatitudine » [ānanda-māya] e ha « la beatitudine come campo di esperienza ».
Nella Brhadāranyaka upanişad si parla del sonno come della condizione intermedia tra due
mondi, «questo» e «quell'altro», in cui risiede l'ātman:
 «Installato in questa condizione, egli contempla entrambe le sedi: quella di questo mondo, e quella dell'altro. E allorché si è addormentato, e si è impossessato di elementi tratti da tutto questo mondo particolare, egli costruisce e disgrega a suo piacimento, permanendo nella propria luce. Questo essere nel sonno è fatto di luce » (IV, 111, 9).

L'idea che la trama del sogno sia intessuta di luce, benché sia escluso che si tratti di una luce proveniente dall'esterno, è impiantata nel termine stesso che definisce il secondo stato di coscienza.
Il sonno con sogni è taijasa, da tejas, sostanza luminosa. Questa idea avrà uno sviluppo di grande importanza nelle metafisiche della luce della scuola trika7 e in tutto lo shivaismo kashmiro fiorito dal secolo X, per impulso soprattutto di Abhinavagupta.
La teoria dei «quattro stati» è una delle pietre miliari del vedanta advaita. La Brhadāranyaka, la Chāndogya, la Māndukya, la Maitry, la Praśna upaniśad e i loro commentatori la espongono senza discordanze: la veglia (jagaritha sthāna) è la condizione definita vaisvānara, ossia « comune a tutti gli uomini», nella quale si ha conoscenza degli oggetti esterni. Al sopraggiungere del sonno (svapna), la persona incomincia la lenta immersione dentro di sé. Rispetto al mondo esterno, essa si rende pravivikta (« separata »), e sensibile a percezioni più sottili di quelle di veglia, fatte di una sostanza luminosa e filtrante (tejas). Nel sonno profondo (suśupti) la coscienza del dormiente si raduna o compagina su se stessa: « Colui che è in questo stato — precisano i testi — è chiamato Pràjña, l'interno ordinatore o "conoscitore", colui la cui coscienza è il proprio strumento di esperienza ».
Al di là del sonno profondo si postula uno stato ulteriore, definito turīya o semplicemente il Quarto, che i testi descrivono per sole negazioni: né conoscente, né non conoscente, invisibile, non attivo, impensabile — per indicare che l'identità soggettiva è ora dissolta. E' lo stato estatico di pura quiete, dell'essere (atman) non ancora o non più separato in soggetto-oggetto, non ancora o non più vincolato al « corpo d'illusione » (māyāvirupa) sovrano nella veglia e nel sogno — e maya infatti è definita «ombra» (chāyā) dell’atman, la cui sede naturale « di là dall’ombra » è nel turīya.
Questo passaggio vertiginoso dalla condizione di veglia all'oblio assoluto attraverso la fase intermedia del sogno, è una metafora che i testi adottano sia per indicare le condizioni dell'esperienza metafisica — che cosa fare o non fare per accedere al risveglio dal sonno samsàrico —sia per descrivere la stessa cosmogonia: il passaggio dal non-essere al divenire, dal « sogno » della realtà alla realtà attuata, dal mondo sognato al« Sogno » del mondo.



« Lo trasposizione iconografica della teoria del mondo promanato come un sogno (svapnaprapanca), si può osservare sia nello allegorie di Śiva come Signore del Sonno, sia nelle raffigurazioni di Viśnu addormentato che «sogna» il mondo. Nel rilievo del periodo gupta, la cosmogonia sì dispiega su tre sovrapposti piani orizzontali8.
Nella zona centrale grandeggia la figura di Viśnu assopito su un fianco, il capo sostenuto da una delle quattro mani, mentre la sposa Lakşmī gli massaggia il polpaccio destro per stimolare il suo sogno cosmico. Le spire di un cobra gigantesco, il cui nome è Ananta (alla lettera: « Senzafìne »), galleggianti sulle acque primordiali, sostengono sofficemente il corpo del dio, mentre il grande ombrello pluricefalo gli ombreggia il capo mitriato. Posta com'è al centro del rilievo, questa scena simboleggia un tempo sospeso, la fase in cui il cosmo non ancora manifestato è solo un fantasma nel sogno di Viśnu posseduto da Nidra, la dea del Sonno.
Nella zona superiore sono raffigurate le potenze cosmogoniche che insufflano in Viśnu il sogno del mondo. Al centro, assiso sulla corolla di un loto il cui stelo è saldato al polso di Viśnu, è Brahmā, il Signore della Luce e creatore del mondo visibile. I suoi quattro volti guardano nelle direzioni dello scacchiere universale. Alla sinistra dì Brahma, ossia alla destra di chi guarda, è Śiva, il Signore del Sonno, colui che annulla l'illusione cosmica. Śiva e la sposa Parvati cavalcano il toro Nandī, seguiti da un corteggio. Alla destra di Brahma stanno le potenze che assesteranno il mondo in una durevole continuità: il possente Indra, la controparte indiana di Zeus, a cavalcioni dell’elefante Airavata, e accanto su un pavone, il focoso Kumara, figlio di Śiva.
Nella zona sottostante, il mondo sognato da Viśnu è ormai uscito dal tempo virtuale ed è diventato una realtà visibile. Lo abitano gli antenati mitici degli uomini, coloro che largiranno al genere umano le regole di vita e costumi. Nel caso di questo rilievo, gli eroi culturali sono i cinque fratelli Pandava, protagonisti del Mahābhārata e la loro comune sposa Draupadī. Allegoricamente la cinquina guerriera rappresenta i cinque sensi e Draupadī la mente che li domina9.
La teoria cosmologica dello svapna-prapanca si congiunge strettamente con quella dei « quattro
stati» formulata nell'advaita vedānta. La risalita dall'oblio del turīya alla condizione di veglia è descritta come una perdita della simbiosi perfetta e beatifica tra l'ātman, il cosiddetto «conoscitore del campo» e la coscienza inerente al soggetto, ossia il suo « campo di esperienza ». Il dormiente che nel sonno profondo è reintegrato nell'unità del sé con se stesso, incomincia nel sogno ad acquistare coscienza della propria soggettività, benché permanga ancora l'identificazione tra il regista dei sogni e il loro protagonista. Quando il sognatore si desterà, il «campo» e il «conoscitore del campo » saranno definitivamente separati, e l'unica conoscenza di cui egli disporrà sarà quella discriminativa (viveka), soggetta alle pulsioni contrarie del piacere-dispiacere, desiderio-paura.

Nel caso dello svapna-prapanca in versione cosmologica, i moduli dell'iconografia attingono al mito ingabbiando funzioni astratte — quali stasi, movimento, energia centrifuga, concentrico o centripeta — in altrettante personificazioni divine — Viśnu, Śiva, Brahma, semidei o perfino eroi, com'è palese nel rilievo descritto. La teoria del mondo-di-sogno affida la propria illustrabilità a un modello convenzionale in versione iconica (mandala), o geometrica (yantra) in cui l'ascesa o discesa della coscienza individuale dall'oblio del Quarto stato alla veglia e viceversa, è rappresentato come un percorso contemplativo in andata e ritorno — dal punto centrale (bija-bindu), assimilato simbolicamente all'idea dell'origine, attraverso triangoli, cerchi e loti, al perimetro quadrangolare esterno sorvegliato alle «porte» da dèmoni o dèi guardiani, minacciosi o benevoli a seconda del rasa Psichico10 che si vuole rappresentare. L'esempio più semplice di diagramma meditativo
per generale consenso è lo Śri cakra.

* * *

« La realtà non si può dire né che è vuota né che non è vuota, né che è vuota e non vuota, né infine
che è non vuota e non non vuota. Queste parole non sono altro che una designazione metaforica...
Si suole sostenere che il mondo del molteplice relativo, Il samsàra, è irreale, mentre
taluni sostengono l'esatto contrario. Ebbene, le due tesi sono false ambedue, perché nirvana e
samsàra, relativo e assoluto, sono proposizioni della mente, non corrispondono a nulla ».
Nagàrjuna, Madhyamakarika XXII, 11.
I sistemi buddisti, nelle loro soluzioni teoretiche anche più differenziate — dagli indirizzi tantrici nel Tibet a quelli theravàda a Sri Lanka —, si appropriano della teoria pan-indiana del sogno, fino alle sue estreme conseguenze logiche. Da oggetto di pura speculazione, il sogno diventa un oggetto di modificazione. Operando meditativamente sul sogno, le trafile tibetane vajrayàna delineavano una episteme della psiche che partendo dall'assioma della vacuità radicale propugnata da Nagàrjuna, un brahmano convertito del II secolo, prescrivevano tecniche di messa a fuoco dell'attenzione e di sviluppo dell’immaginazione attiva, volte in ultima analisi a provocare una completa emulsione di «vissuto» di veglia e onirico, penultima tappa del processo di revulsione culminante nell'esperienza del vuoto oltre la forma. In codesti casi l'arte figurativa, rispetto all'esoterismo della dottrina, obbediva a uno scopo pratico: visualizzare come se fossero creature o eventi della vita di veglia, le potenze, gli archetipi, gli intrecci del mondo di sogno, e stabilire un'ininterrotta corrente di attenzione (vipassanà) dall'icona « esterna », che perlopiù l'apprendista si dipingeva da sé, alle immagini mnestiche e oniriche « interne », fino a livellare le due specie di proiezioni e a commutarle a volontà11.
Rispetto agli yoga del sogno del tantrismo tibetano e ai loro vistosi e ossessivi apparati iconici,
le scuole theravada a sud e a oriente dell'India, si distinsero piuttosto per una spiccata austerità nell'esercizio delle alchimie interiori e nell'uso parallelo di immagini. Ai viluppi di creature diaboliche, agli scenari psicotropici dei mandala di meditazione profusi nelle serie himalayane, si sostituiscono nei templi e monasteri degli antichi regni buddisti a Sri Lanka i drappelli — leziosamente dipinti o scolpiti in proporzioni colossali all'aperto — di una sola immagine, assunta come unica icona capace di illustrare la buddhità.
Da Anuradhapura a Sigiriya a Polonnaruwa, le tre successive capitali dell’antica Ceylon, le icone del Buddha si susseguono in poche manierate varianti nell'arco di circa un millennio: dal III secolo A.C. quando la leggenda fissa la missione nell'isola dei figli di Aśoka12, al 1196, quando si concluse a Polonnaruwa il regno di Nissnmka Malla.



Delle tre posture in cui ii Buddha è solitamente effigiato — eretto, assiso e reclino — la più intrigante dal punto di vista estetico è quella del Buddha colto nell'istante del trapasso, steso sul fianco destro13, l'impassibile volto premuto su un guanciale cilindrico e ombreggiato dalla palma aperta. Nella figura si scorge il dettaglio del colosso di Gal Vihara a Polonnaruwa, posto accanto ad un'altra statua dell'Illuminato in piedi a braccia conserte. Ma la più singolare icona del sonno, per via dell’espediente ideato dall'anonimo scultore, è quella del Buddha satapena (cingalese «assopito»), nella stanza laterale sinistra del tempio Dehīvala alla periferia di Colombo.
La statua in legno policromo lunga più di cinque metri è adagiata su un alto plinto e cortinata da un sipario di garza color ambra.
Nelle penombra della sala trafitta dalle fiammelle dei ceri tra colonnine di fumo, al di sopra delle teste dei devoti accoccolati e salmodianti s'intravede di là dalla tenda, il testone di un Buddha assopito a metà, le pupille che tralucono appena dalle palpebre abbrunate a significare il suo sonno da «desto». L'espediente consiste in due gocce di lapislazzulo cupo insediate nello orbite in modo che per l'inclinazione del capo, esse paiono guardere dal sotto in su.
La dottrina pan-Indiana del sonno, mutuata dall'idea arcaica di māyā 0 modellala attraverso le strategie del sogno fino a propugnare l'Ideale buddista del «risveglio», ha trovato nell'effigie del Buddha satapena a Colombo la sua formulazione forse più stravagante e geniale: un colosso reclino
che ammicca con due occhioni di bambola animata: immaginazione, fede e suggestione alleati nel fine comune di mostrare che anche lo morie è irreale,

« Ah! com'è buffo il paradosso che nulla esiste
e tuttavia c’è una presenza»
Longchempa, Tibet, HOC. XIV14

1 Gaudapāda, l'esponente maggiore del Sāмkhya (sec. VII) nella sua epistemologia sull'illusione, giunge a formulare l'identità degli stati di veglia e di sogno.
2 Tra veglia e sonno, lo yoghi si concentra su un oggetto specifico, e in sogno gli sarà rivelato
3 L'indiano Nāropa (1016-1100), discepolo di Tilopa nella linea che annovera Marpa e Milarepa, impartì sei metodi di istruzione al « risveglio », uno dei quali è lo yoga del sogno. Il testo che raccoglie i sei metodi, è stato tradotto e annotato da Garma C. Chang, ed è disponibile nella versione inglese di J.C. WILSON, Teachings of Tibetan Yoga, University Books, Nuova York 1963. Il tibetano Longchempa (1308-1363) appartenne alla trafila Nying- mapa. La terza parte della Trilogia del trovare sollievo ed agio, s'intitola Stupore, e descrive gli otto schermi dietro i quali si cela l'ineffabile vacuità del reale. Essi sono: « Sognare », « Sortilegio-lncanto-Stupore», « Illusione », « Miraggio », « Il riflesso della luna nell'acqua », « Eco », « Terra oscurata da nubi», «Fantasmi». Il testo è stato tradotto da H.V, GUENTHER: Wonderment, Dharma Publishing, Emeryville (Cai.) 1976.
4 Svapna, dalla radice SWEP, col significato di sonno, sogno, avere visioni, dormire, sognare.
5 Sull'assonanza semantica tra svapna e svāpyaya cfr. il commento di A. K. COOMARASWAMY in Vedic Doctrine of Silence, Selected Papers, Metaphysics, Bollingen Series, Princeton Un. Press 1977.
6 La formulazione sistematica della dottrina della non-differenza (bheda- bheda) è nei commenti advaitini di Sankaràcàrya (sec. IX).
7 Cfr. in proposito A. GALLERANO, Tre studi sul rapporto Luce-Coscienza nella scuola Trika, I, II, in «Annali dell'Istituto Orientale di Napoli», voi. 32, 1972, 1973.
8 Cfr. in proposito, J. CAMPBELL, The Mythic image, Bollingen, Princeton Un. Press 1974.
9 Un'ermeneutica delle « funzioni » mitiche nel Mahābhārata è in J. DUMEZIL, Mito e epopea. La Terra alleviata, Einaudi, Torino 1982
10 Rasa, lett. linfa, succo, nell'estetica shivaita kashmira assume il co-senso di «sapore», tonalità dominante nell'opera d'arte, che sprigiona una corrispondente risposta psichica nel fruitore. Testo chiave di tale dottrina è The Aesthetic Experience according to Abhinavagupta, tradotto e glossato da Raniero Gnoli, Chowkhamba Publication, Varanasi 1968. L'edizione in italiano del classico DHVANYÀLORA. I principi dello dhvani, è a cura di Vicentino Mattarino, Torino, Einaudi, 1983.
11 Nello yoga del sogno Nàropa istruisce a: ricoonscere i sogni in una prima fase e a trasformarli successivamente in vista di modellare il cosiddetto « corpo d'illusione », una specie di « doppio » del corpo materiale che, al momento del trapasso, si svincola dal guscio mortale. La terapìa immaginale di Nàropa include una ricca dieta contemplativa: nella veglia (icone e paesaggi) e nel sonno (immagini oniriche da suscitare e dissolvere).
12 Secondo le prescrizioni dello yoga del sonno, la postura migliore è quella prediletta dai bambini, raggomitolati sul fianco destro premendo sul fegato (suscitatore dei sogni).
13 Sanghanitta avrebbe piantato, dove ancor oggi s'erge nella sua vetustà, un ramo dell'albero bodhi originale, recato appositamente dall'India, mentre il fratello Mahinda avrebbe capeggiato la prima missione ufficiale nell'isola nel 247 a. C.
14 Sentenza tratta da LONGCHEMPA, Op. cit., v. nota 3.

lunedì 13 giugno 2011

SAGGIO SULLE ALLUSIONI SOTTINTESE NEL TITOLO «MESSAGGIO NELLE VISIONI DELLA MECCA SULLA CONOSCENZA DEI SEGRETI DEL RE E DEL REGNO»
di Michel Vàlsan


(Risâlah al-Futûhâl al-Makkiyyah fi Ma 'rifah al-Asrâr al-Mâlikiyyah wa al-Mulkiyyah)

"Allahumma, apri per noi le porte della tua misericordia"
 
terza ed ultima parte
 
III - La chiave


Ritorniamo agli avvenimenti sulla presa della Mecca, inevitabilmente c'informeranno, se si operano le trasposizioni adeguate, sulle modalità che convengono al processo di "Apertura" delle Futûhât. Una ricapitolazione dei fatti nell'ordine cronologico mostra che le vicende per aprire l'accesso al santuario dell'islam, furono progressive. Tutto cominciò nell'anno 6 da una visione del Profeta che fu poi confermata dalla rivelazione della sura al-Fath all’uscita dell'episodio di Hudaybiyah:

Già, Allah ha realizzato per il suo Inviato la visione in divinis. Certo entrerete in sicurezza nella moschea proibita, così Allah vuole .

Questa modalità di Vittoria considerata, paradossalmente, già evidente sul piano esteriore, per ragioni che analizzeremo probabilmente in un'altra occasione, fu, lì per lì, presa male dai pellegrini a cui era stata promessa la visita ai luoghi santi. Costoro non percepivano gli effetti né nel tempo né nello spazio poiché, si vietava loro, malgrado tutte le aspettative, ogni incursione nell'area geografica del territorio sacro e la loro celebrazione rituale era concretamente rimandata ad una data ulteriore. Sono i termini della rivelazione che faranno loro prendere provvidenzialmente coscienza che il Fath aveva già avuto luogo ma, come abbiamo segnalato precedentemente, si era prodotto su un piano diverso da quello immaginato.

L’anno seguente, conformemente agli accordi presi a Hudaybiyah, i pellegrini si recarono alla Mecca e la Promessa divina conobbe così un nuovo compimento. Tuttavia, non facendo parte integrante dello svolgimento dei riti, l'entrata nella Ka'bah fu loro rifiutata. È solamente nell'anno 8, nel mese di Ramadan che l’ "Apertura" totale della madre delle Città fu assicurata definitivamente, marchiata da un avvenimento di portata spirituale e temporale molto alta: la consegna della Chiave del santuario. Questo simbolo della resa corascita stabiliva che il territorio, la cinta ed il Tempio consacrato erano diventati oramai vincolati al Culto puro, di eredità abramica.

Prima di descrivere le circostanze di questo avvenimento maggiore, cominceremo con precisare che la chiave, in quanto strumento dell'apertura, si dice in arabo al-miftâh . Il valore numerico di questa parola che si può interpretare qui come la sua "chiave numerica", è 560 .

Si può notare che questo numero corrisponde a quello dei capitoli delle Futûhât, ma indica anche la data di nascita dall’egira dello Sceicco Muhyî-d-Dîn Ibn 'Arabî , perché c'è naturalmente similitudine tra l’opera santa ed il suo autore, ed il periodo di 560 anni è uno di quelli dopo cui si rimanifesta la Fenice: è quella che da' Brunetto Latini, l'istruttore di Dante . Non è possibile trattare qui questa questione legata alla legge dei cicli minori e maggiori che si applicano alle differenti durate della vita della Fenice ed alle sue riapparizioni. Il simbolismo della Fenice è indissociabile dagli avvenimenti escatologici, segnaliamo che la funzione di Ibn 'Arabî vi si rapporta in massimo grado e che ha redatto a questo riguardo un lavoro intitolato La Fenice che si occulta, a proposito della conoscenza del Sigillo dei Santi e del sole dell'occidente. Alla fine di questo trattato, scrive: «L'apparizione [del Sigillo della Santità] ha luogo dopo il compimento dell'Hâ ' nell'ordine alfabetico. La sua nascita interna, passati il Sâd e la Ta’». Un'interpretazione nella logica della Scienza delle Lettere e dei Numeri consiste nel tenere conto del valore numerico delle lettere citate. Si apprende così che è a partire dall'anno 600 compiuto che è chiamata a manifestarsi la pienezza di questa fun-zione . La nascita di colui che deve essere investito si trova, in quanto a lei, in 560 . I quarant' anni che si separano la nascita e la missione ufficiale nell'ordine spirituale dallo Sceicco al-Akbar sono naturalmente da mettere in corrispondenza coi quaranta anni di preparazione del ricettacolo muhammadiano alla Missione universale: il Profeta non ricevette l'apostolato che all'età di quarant' anni, 40 che sono il numero del "ritorno al Principio" e della "riconciliazione" che esprime in generale la doppia idea di "pienezza" e di "maturità". Conformemente alle indicazioni di Michel Vâlsan, questo ci porta a dedurre che la "investitura dello Sceicco al-Akbar al Centro supremo" non può essere stata che dopo l'anno 600 , quando Ibn 'Arabî aveva già raggiunto la quarantina.

Questi dati permettono di considerare una volta di più lo Sceicco Muhyî-d-Dîn, il "Vivificatore della Tradizione", come una rinascenza muhammadiana che interviene nel ciclo della Santità e, iniziando, la sua produzione, come una re-espressione del Messaggio Profetico nello stesso dominio. I 560 capitoli dei Futûhât si rivelano essere allora altrettante porte da aprire per colui che desidera prendere conoscenza dei segreti ri-celati. Il rapporto tra i capitoli e le porte sono tanto più evidenti a stabilirlo è la stessa parola bâb, plurale abwâb che li designa in arabo: aprire la porta rientra dunque, nella cornice delle Futûhât, dà l’accesso al capitolo. Ibn 'Arabî avverte il lettore: «Prima di prendere la parola sugli abwâb di questo libro, presentiamo un bâb che dà l'elenco dei capitoli.» Tuttavia nel titolo di questo questa precisione dice: "Bâb della tavola dei capitoli non contabilizzati nei capitoli. " Il capitolo in questione può essere dunque, in un certo modo, considerato come una sintesi riassuntiva dell’opera tutta intera. Questa osservazione dello Sceicco permette, di aggiungere questo capitolo agli altri per raggiungere il numero di 561; e se si considera che sfugge al conteggio, è dall'addizione della parte introduttiva ai Futûhât che risulterà questo numero. Fin dal primo capitolo dei Futuhât, la domanda della chiave è posta. È legata all'incontro eccezionale dello Sceicco al-Akbar con la sua Alter Ego divino, alla Pietra nera, che chiama "il giovincello evanescente." Questo Essere Trascendente, di cui noi riparleremo in dettaglio al momento della traduzione del capitolo che lo riguarda, è una per-sonificazione sensibile dello spirito divino, per riprendere l'espressione di Michel Vâlsan, è l'omologo dell'angelo Gabriele che porta la Rivelazione. Lo Sceicco al-Akbar chiede al suo giovane iniziatore ed ispiratore: "Fammi conoscere come consultarti adeguatamente affinché mi attenga alle modalità dei movimenti della tua chiave."

Così dice, un hadîth profetico insegna: Chiesero a Wahb b. Mu-nabbih: Ciò " Lâ ilâha illâ-Llâh, (Non c’è Dio eccetto Allah), non è la chiave del Paradiso? - Si, rispose, ma non c'è chiave senza denti. Se vieni munito di una chiave dentata, ti sarà aperto, se no non ti sarà aperto" "Le interpretazioni esoteriche fanno di ciascuno delle quattro parole della Sahâdah una dei quattro denti della chiave che, a patto di essere intera, apre tutte le porte della Parola di Dio, e dunque quella del Paradiso." Il valore numerico di questa testimonianza dell'unità divina è, ricordiamolo, 165 , quindi facendo riferimento all'articolo precedente «Iqra'», dove si nota che il nome islamico 'Abd al-Wâhid Yahvâ prende tutti questi valori 560, 561 e 165, si conosce, o meglio riconosce, uno degli aspetti fondamentali della funzione di cui fu investito René Guénon.

Il suo ruolo nei confronti delle Futûhât e di ogni studio akbariano è in generale determinante e consiste nel mettere finalmente in luce dei segreti tesaurizzati nell'insegnamento dello Sceicco al-Akbar. Certi obietteranno probabilmente che l’opera deve potersi spiegare così per se stessa come è affermato a proposito del Corano, non di meno il ricorso ad una nuova chiarificazione può rivelarsi provvidenziale; del resto il Corano non contiene ogni cosa? - non abbiamo omesso niente nel Libro è - egli dice - la maggior parte delle volte si spiega per bene con le sorgenti esterne di cui la principale è la Sunnah. A questo proposito, quando il Profeta invita: Cercate la scienza fosse pure in Cina, la questua della scienza incombe a tutti i musulmani, da una parte, non ha certamente in vista la scienza profana e, d’altro canto, indica chiaramente che ogni scienza sacra, da ovunque provenga, fosse pure dai confini della terra, può essere ben integrata nella prospettiva dell'islam universale.

Aggiungeremo che la Fâtihah, "Quella che apre", è talvolta identificata alla chiave stessa, e che il Basmalah che l'inaugura è qualificato in quanto a lei come Fâtihah al-Fâtihah. Lo si interpreterà allora come la "Chiave delle chiavi" diversamente detta per eccellenza il "Passaggio" che apre il passaggio ad ogni sura. Da un altro punto di vista, "Quella che apre" può essere simboleggiata dalla " Mano" che viene ad unirsi alla chiave per azionarla. La sua Unità sintetica che si aggiunge al numero 560 della chiave, permette di considerare il passaggio di 561 a 165. Sono due "numeri-specchio" che si ottengono difatti successivamente facendo ruotare la chiave sul suo asse, riproducendo così l'operazione di conversione di cui è suscettibile il cuore, per aprirsi l'accesso al Centro del Mondo dove è conservata intatta, in Deposito, la vera Dottrina dell'unità.



Pentecoste 2001 - 12 rabì' al-awwal 1422

Mawlid al-Nabî



74 Corano, 48,27,


75 Mifîâh per la sua ortografia equivale a miflah (senza allungamento della a, che qui corrisponde ad una soppressione della Valif). È allora equivalente a mafleha che in ebraico designa tanto l'azione d’aprire che la chiave.

76 a + / + m + /+ t + à + h = 1 + 30 + 40 + 80 + 400 + 1 + 8 = 560.

77 Questo stesso anno corrisponde a quello della morte di 'Abd al-Qâdir al-Jilânî, il Gran Maestro a cui è confidato il comando delle milizie celesti, mili-zie menzionate espressamente nella la sura Al-Fath (versi 4 e 7).

78 Cf. Le livre du Trésor, texte publié dans Jeux et sapience du Moyen Age, p. 798.

79 Tulù', terme choisi qu'on applique par exemple au "lever du soleil" ou à celui des astres.

80 Ha', lettera che occupa il 7° rango nell'ordine alfabetico, che rinvia al 7° secolo e al 7° mese dell'anno, Rajah, qualificato di "singolare", mese con cui Ibn 'Arabî ha un affinità particolare e al cui farà allusione qualche riga più avanti.

81Cf. nota 4 di questo articolo a proposito del periodo di sei secoli. Ritorne-remo prossimamente su questa domanda a proposito dalla vita, della fun-zione e dell'opera di Ibn 'Arabî.

82 Somma dei valori delle lettere Sâd (60 secondo il conto occidentale, e Tâ' (500). Per la nostra traduzione di questo passaggio dell’ 'Anqâ' mujriby ci riferiamo al Ms. Berlino 3266, il più vecchio manoscritto conosciuto di Ibn 'Arabî secondo Gerald Elmore (cf). p. 212 della sua tesi dedicata a questo lavoro, Yale University, novembre 1995, ed intitolata The Fabulons Griphon, traduzione con cui non concordiamo completamente, anche se il carattere escatologico del "Grifone" è innegabile, perché questo "animale a due na-ture" non si rifà chiaramente allo stesso simbolismo di quello della "Feni-ce"). La maggiorparte delle altre versioni menziona in modo errato altre lettere che hanno la stessa grafia della Là' e del Sâd ci che si differenziano per i loro punti diacritici, Bà', Tā' e Dâd, rendendo il messaggio improprio e di conseguenza incomprensibile.

83 Le Roi du Monde, cap. 5.

84 Le Roi du Monde, chap. 5.

85 è una delle spiegazioni del titolo al plurale, "le Aperture" o Futuhât che designano la "Summa" di Ibn 'Arabî.

86 Il numero 560 non è proprio alle sole Futûhât, né all'unica prospettiva islamica. Occupa un posto importante nella tradizione orphico-pitagorica ed interviene particolarmente nella struttura delle Géorgiche di Virgilio di cui i 2178 versi possono essere divisi in due gruppi complementari: uno di 560 versi, l'altro di 1618 che rinvia al Numero d’Oro.
Per ciò che riguarda il numero 561, esiste una poesia iniziatica Peul intitola-to Laaytere Koodal, "Lo scoppio della grande stella" che ha un attinenza di-retta. Questa "grande stella" "perfetta tra le stelle che, lacerò il cielo e cad-de sul Nord è la grande stella del re", verso 110, 191, 391. Questa stella chiamata Koodal ha per valore numerico 561 (nota 2, p. 31). Del resto, il racconto, dal verso 412 al verso 423, enumera, sotto forma di enigma, gli elementi di una somma che corrisponde a questo numero:
"una teoria di taglialegna, per gruppi di dieci e ciò venti volte
ai quali si aggiungono tredici caïlcédrats.
Per quelli che han disegno di tagliare le piroghechi vuole tagliare ed abbattere i grandi caïlcédrats maschi
chi, contati e ricontati, Fanno quattro volte il keme (=80) dei Bambaras
queste saranno dieci alle quali si aggiungono due:
vedi, esse vogarono sui fiumi.
sono dodici immensi fiumi.
Che cosa trasportano dunque tutte queste piroghe?
Quattro re, tutti mendicante.
Conta ciò che è stato enumerato, addiziona e comprenderai.
Il risultato del conto, lo proclama chi potrà! ",
(Amadou-Hampâté Bâ Lo scoppio della grande stella, testo e traduzione, Parigi, 1974).

87 Vol. 1, p. 48.

88 Sahîh al-Buhari (Vol. 2, p. 89), Kitàb al-janâ iz (Livre des funérailles, chap. 1).

89 Chevalier-Gheerbrant, Dictionnaire des symboles (Paris, 1997), p. 262.

90 In seguito a ciò che è stato appena detto, ritorniamo alla data di nascita cerniera di Ibn 'Arabî. I calendari islamici e cristiano indicano rispettivamen-te gli anni 560 e 1165. Il carattere simbolico di questo ultimo numero appa-re quando lo si decifra 1-165, 165 che suggerisce così l'unità prima. Questo procedimento non è inusitato e lo si trova in Dante particolarmente quan-do parla di "Un cinquecento diece e cinque" (Purgatorio, 33, 43, che posso-no essere letto "un 515" o (1-500-10-5 =) "1515."
91 Coran 6, 38.

venerdì 6 maggio 2011

SAGGIO SULLE ALLUSIONI SOTTINTESE NEL TITOLO «MESSAGGIO NELLE VISIONI DELLA MECCA SULLA CONOSCENZA DEI SEGRETI DEL RE E DEL REGNO»

Di Michel Valsan

parte seconda

 

II - “Le Aperture”



Il primo indizio che rivela il contenuto di un opera è il suo titolo e la Summa akbariana delle Futûhât non sfugge a questa regola evidente. Il termine Futûhât è legato con precisione a parecchie idee che le tradu-zioni nelle nostre lingue non riescono a conciliare sotto un stesso vocabolo. Per questa ragione chi privile-gia una scelta favorisce inevitabilmente un senso piuttosto che un altro, a meno che si ricorra ad una peri-frasi con la conseguenza di appesantire il titolo mentre, per vocazione, questo deve essere al contrario il più conciso possibile. Nella maggioranza dei casi, la precisione è sacrificata all'eleganza e le poche spiega-zioni fornite in nota tentano di compensare le inesattezze per omissione e le approssimazioni di traduzio-ne.

Il radice FTH esprime innanzitutto un’idea di "principio" o "apertura" e questo era già stato considerato in precedenza. È in questo senso che la prima sura del Corano è chiamato al-Fâtihah, "Quella che apre". Il confronto che si può stabilire così tra Fâtihah e Futûhât mette in luce i rapporti stretti che uniscono l'Invia-to-Legislatore ed il suo erede Ibn 'Arabî ed anche il testo consacrato del Corano e delle Futûhât che si pos-sono considerare come la loro rispettiva produzione ispirata dallo spirito. Se si aggiunge che le Futûhât so-no un risâlah, un "messaggio", la relazione con la Rivelazione ne è rinforzata: è una delle ragioni che per-mette di giustificare la traduzione di Futûhât con "Rivelazione". Del resto questo è uno dei sensi dati dagli arabi a questa parola. Ciò che conferma questa relazione, è il passaggio finale del primo capitolo delle Fu-tûhât dove il Calamo supremo, nella sua forma angelica, detta allo Sceicco: "Apprendi che sei la Dignità del Re!" e lo Sceicco risponde: "Mi preparai allora alla discesa ed all'arrivo come inviato.1" Così è sorprenden-temente stabilita l'analogia tra le Futûhât del Sigillo del Santità muhammadiana con il messaggio coranico trasmesso dal Sigillo della Profezia.

Le Futûhât sono dette makkiyyah, della Mecca, perchè "la forma della scienza e dell'azione, alla Mecca, è più perfetta che in ogni altro luogo”2. Si riferiscono al fatto che la "Madre delle Città" è uno degli epiteti della Mecca e la Fâtihah ha in comune con lei di essere chiamata la "Madre" ma del "Libro" o del "Corano" questa volta. Questo ci porta a considerare specialmente un altro significato della radice FTH adattato a titolo del lavoro di Ibn 'Arabî: si può rendere il termine Fath di cui Futûhât è uno dei plurali, con le idee di "vittoria", di "conquista" o di "presa", soprattutto se si tratta di una città come è qui il caso3. C'è dunque in questo un'allusione manifesta e diretta all'episodio profetico della Presa della Mecca nell'anno 8 del Egira4. Questa conquista, al-Fath, è considerata come la Vittoria per eccellenza dal Corano, è a lei che si riferisce, secondo l'esegesi classica, la sura del "Soccorso"5 che sigilla la Rivelazione delle sura poiché è la 114° e ul-tima nell'ordine cronologico.

La Sunnah parla di Fath Makkah, la Conquista della Mecca, ed una delle varianti del titolo delle Futûhât ci-tata da Ibn 'Arabî è al-Fath al-Makki, la Conquista della Mecca, si può star certi che sono proprio a questo momento storico ed a questo luogo geografico preciso che l'autore6 vuole rinviare. Il simbolo di questa vit-toria che fu al tempo stesso temporale e spirituale invita da allora il lettore a presentire tutti i tesori che si celano nella Summa della Mecca dello Sceicco al-Akbar.

Il riflesso che lega strettamente, le indicazioni date da Ibn 'Arabî con gli elementi del Corano e della Sun-nah sono sicuramente, da sempre, molto proficui. Gli avvenimenti che toccano la vita del Profeta hanno difatti un interesse profondo per noi che perché su di loro noi costruiamo un vero percorso iniziatico da se-guire secondo la modalità muhammadiana perchè il gesto consacrato dell'Inviato divino descrive una trac-cia che serve come trama permanente.

1 Vol. I, P. 51. Allusione evidente alla realizzazione discendente rievocata a più riprese da Michel Valsan. La traduzione letterale può essere resa con "... all'arrivo dell'inviato." Ma il contesto permette di giustificare quella riportata nel te-sto come lo preciseremo nelle note che accompagneranno la nostra traduzione.

2 Futûhât, Vol. 1, cap. 4, p. 99.

3 A questo proposito, si può dire che la conquista o la vittoria concreta e visibile è manifestata esteriormente sul piano dell'apertura spirituale o della rivelazione che le corrisponde interiormente.

4 i 20 ramadan.

5 - Al-Nasr, il 11O° nei Corpus coranici canonici.

6 Su indicazione di un amico, celebre commentatore dell’opera akbariana, Henry Corbin che intuì i rapporti qui sottoli-neati, siamo inclini a tradurre qui il titolo con "Conquiste spirituali della Mecca", L'immaginazione creatrice nel sufismo di Ibn Arabî, Parigi, 1958, cap. 2, caratteristiche 215, p. 260.

La storia profetica è registrata simultaneamente nel Corpus coranico, per ciò che riguarda l’aspetto dell'uomo Universale, e nella Sunnah, per ciò che riguarda un secondo aspetto di questa Realtà unica e questo è perché gli apporti di una di queste due sorgenti possono servire ad illuminare quelli dell'altro. Da parte nostra, vediamo, nella vita del maestro-erede e nel suo insegnamento, una terza sorgente, a sua vol-ta comprensibile che viene ad unirsi ai due precedenti e permette di farne sgorgare i significati profondi.

Il Corano esprime al-Fath, che si può tradurre anche con vittoria, ma in tre modi diversi: due figurano nella sura "Al-Fath"7 che fu rivelata, in modo significativo, alla 111° riga cronologica, e l'ultima nella sura Al-Nasr" o "Il Soccorso" che abbiamo rievocato già prima.

Qâshânî riconosce questo argomento8 «le Conquiste dell'inviato di Allâh sono tre:

1. La prima, chiamata, al-Fath al-qarîb, la Vittoria vicina è indicata dalla Parola divina: Certo, ti abbia-mo assegnato, oltre a questo (presa della Mecca) una Vittoria certa [...]

2. La seconda è al-Fath al mubîn, la Vittoria evidente

(alla quale corrisponde il primo versetto del sura che commenta Qâshânî e che dice)9: Certo, ti ab-biamo bello e molto accordato una Vittoria evidente10 [...]

3. La terza è al-Fath al-mutlaq, la Vittoria assoluta che indica la Parola divina: quando venne il Soccor-so di Allâh e la Vittoria!. 11

Se la questione trattasse rigorosamente soltanto le vittorie ottenute “manu militari” o negoziate dalle truppe islamiche, sarebbe ovvio constatare che ce ne furono più di tre, è quindi meglio interpretare le con-quiste suddette come tre tappe successive di quella della Mecca. Questa trilogia descrive così il processo della Vittoria "dietro la quale, secondo i maestri, egli non ha più vittoria"12, o "più Egira" secondo i termini di una hadîth13. Ibn Ishhâq, nel suo racconto sulla vita del Profeta, e gli esegeti coranici fanno corrispondere a questi tre stadi della Conquista della Mecca le tre spedizioni successive alle quali presero parte il Profeta, quella di al-Hudaybiyyah che è qualificato di "Vittoria patente", quella di Khaybar che è annunciato come "Vittoria vicina" e quella di la Mecca propriamente detto che resta "non qualificata." campo iniziatico ed sul piano microcosmico.

Ci limiteremo, in un primo tempo, a riprodurre le definizioni che ne dà Qâshânî nel suo glossario dedicato ai termini tecnici del sufismo:14

 "Al-Futûh è, riguardo alle grazie esterne ed interiori, tutto ciò che è aperto al servitore e che gli era chiuso prima, come i cibi, l'adorazione, le scienze, le conoscenze, le rivelazioni ecc.15

7 Sura 48. È il titolo stesso di questa sura, quando è citato senza qualificativo e appare come assoluto, designa la terza Vittoria.

8 Tafsir attribuito ancora oggi, per errore, ad Ibn 'Arabî, tomo II, pp,. 505-506.

9 Corano 48, 27. Il versetto dice espressamente: Allah mostrerà la veridicità della visione [concessa] al Suo Messagge-ro: se Allah vuole, entrerete in sicurezza nella Santa Moschea, le teste rasate [o] i capelli accorciati, senza più avere timore alcuno. Egli conosce quello che voi non conoscete e già ha decretato oltre a ciò una prossima vittoria.

10 Corano 48, l.

11 Corano 110, l. È in questo versetto che la Vittoria è citata senza qualificazioni. Ha ciò che dice Qurtubî ne: "Quest sura fu rivelata all'epoca del pellegrinaggio dell'addio a Minâ, poi fu rivelato il versetto: oggi, ho completato per voi la vostra Religione e ho compiuto il Mio Favore su voi Corano 5,3; dopo queste due rivelazioni, il Profeta visse 80 giorni. Poi fu rivelato il versetto sul defunto che non ha né ascendente né discendente (Corano 4, 196,) gli restavano allora 50 giorni da vivere; poi fu il versetto: È venuto a voi, la piega grammaticale indica chiaramente che l'atto ha avuto il suo compimento e che tocca alla sua fine dunque, un Inviato generato da voi,Corano 9, 128, gli restavano allora 35 giorni da vivere; venne infine il versetto: E temete devotamente il giorno che sarete riportati ad Allah (Co-rano 2, 281,) gli restavano da vivere 21 giorni o 7 secondo Muqâtil. " (Qurtubî, Tafsîr, Vol. 20, p. 233. Tutti questi ver-setti che trattano i preparativi dell’annunciata dipartita del Profeta in missione su terra, furono inseriti nelle sure indi-cate e per provare che questa classificazione nuova non ha niente di arbitrarietà, citeremo che Jibrîl, l'angelo Gabriele, disse a proposito dell'ultimo versetto rivelato: "Oh Muhammad, ponilo in testa (dopo) le 280 di (la sura 2) della Gio-venca" (ibid., Volo. 3, p. 375. Altre versioni complementari sono menzionate in questo passaggio).

12 Qâshânî, Tafsîr, Tomo 2, p. 865. La conquista della Mecca è considerata l'ultima.

13 Su questa nozione, cf. Emir 'Abd el-Kader, Kifâb al-Mawuqif M 80, Vol. 1, p. 155.

14 -Istifâhât ul-çûfiyyah, pp. 135-136.

 La "Apertura Vicina" è quella che, della stazione del cuore, si apre al servitore, è l'apparizione dei suoi attributi e delle sue perfezioni quando entra in contatto con le dimore dell'anima. Ne viene fatta allu-sione nella Parola del Molto-Alto: Un Soccorso che viene da Allah ed una Vittoria vicina 16

 L' “Apertura Manifesta", o evidente, è quella che, della stazione della santità, si apre al servitore, e so-no le teofanie delle luci dei Nomi divini che rendono manifesti gli attributi e le perfezioni del cuore. Ne viene fatta allusione nella Parola del Molto-Alto: Certo, ti abbiamo accordato una bella e grande Vit-toria manifesta, affinché Allah copre ciò che ha preceduto del tuo peccato e ciò che seguirà17(del tuo peccato) questo significa degli attributi propri all'anima ed al cuore.

 La "Apertura Assoluta" è, delle Aperture, la più l'elevata e perfetta. È quella che, in quanto Teofania dell’Essenza Unica, si apre al servitore, è l'immersione nella sorgente dell'unione per l'annientamento di tutte le tracce della creazione. Ne viene fatta allusione nella Parola del Molto-Alto: Quando venne il Soccorso di Allah e la Vittoria.18

Detto questo, interessiamoci alla definizione di Ibn 'Arabî stesso:

 "Al-Futûh, dice, è l'apertura dell'Espressione esternamente, è l'apertura della Dolcezza interiormente ed è l'apertura della rivelazione iniziatica." 19

Questa formulazione basata su tre Futûh figura già al capitolo 73 delle Futûhât in un'altra serie di termini tecnici che rispondono ad una domanda di Tirmidhî20. La riprende e ne affina l'idea al capitolo 339, stabi-lendo questa volta una relazione tra queste tre Aperture e quelle descritte dal Corano. Precisa a questa op-portunità che "è per questa "Apertura dell'espressione" che il Corano trattiene il suo carattere miracoloso. Questa Apertura non è stata data ad una persona in modo tanto perfetto che all'inviato di Allah e Dio di-chiarò: (Disse:) Se gli uomini ed i jinn si fossero uniti per portare l'equivalente del Corano, non portereb-bero il suo equivalente, anche se si sopportassero21 (se collaborassero)22. Tuttavia, è tutto lungo il capito-lo 21623 che ne sviluppa il vero commento ma occorrerebbe, per fare bene, restituirlo per intero ed in un spazio più adatto di questa presentazione generale. C'accontenteremo di riportare ciò che lo Sceicco af-ferma sul suo stesso caso che concerne l’apertura dell'espressione: "l'ho apprezzata e corrisponde (a que-sta sentenza profetica): sono stato gratificato delle Somme delle Parole. ("è lì che è generato il miraco-lo del Corano. Durante un avvenimento spirituale, l’avevo interrogato su questa domanda e lui si mi aveva risposto: «non riportare le cose se non con (assoluta) sincerità ed un ordine accertato e realizzato, senza l'aggiunta di una sola lettera e senza alterazione da parte tua. Se la tua parola ha questa virtù, sarà miraco-losa»24 Non siamo noi, dopo tutto ciò, motivati a credere che le Futûhât siano un'altra espressione di que-sta Apertura ed è ciò che spiega l'impressione prodigiosa ne emana?

15 Jurjàni insiste sul carattere inopinato dicendo,: "Al-Futûh è l'ottenimento di una cosa che non ci si aspetta, Kitâh al - Ta'rifat, p. 165, e p. 292 della traduzione di Maurice Gloton. Futûh prende anche il senso di "grazia" al quale fa allusio-ne la definizione di Qâshânî: le Futûhât al-Makkiyyah possono essere compresi come "Le Grazie legate alla Mecca."

16 Corano 61,13.

17 Corano, 48, 1-2. Il versetto mostra che il Fath in questione è un'uscita definitiva del gioco delle "azioni e reazioni concordanti": si tratta del sorpasso di Yapùrva (cf). René Guénon, Introduzione generale allo studio delle Dottrine in-dù, 3° parte, cap. 13.

18 1263-1328 Enciclopedie de l’Islam, Paris-Leiden 1969

19 Isfilàhât al-sûjiyyah n° 103, trattato redatto nel 613 dell’Egira, da non confondere con quello di Qâshânî che ha lo stesso titolo. La prima raccolta censisce 199 definizioni concise mentre la seconda ne conta 515 di aspetto spesso più evoluto. Segnaliamo subito che esiste da Ibn 'Arabî un'altra prospettiva relativa al Fath che distingue al-Fath al-ijàdi, l'apertura esistenziatrice, dyal-Fath al-'irfani, l'apertura gnoséologica su cui ritorneremo.

20 Domanda 153, n° 96, Vol. 2, pp. 128-131.

21 Corano 17, 88.

22 Futûhât, Vol. 3, p. 153. Ibn 'Arabî fa numerose allusioni alle tre "Aperture", particolarmente nel capitolo 336 che corrisponde ad un commento della sura Al-Fath, ma non li sviluppa necessariamente, Vol. 3, p. 140. Cf. anche il cap. 326 (p). 99.

23 "Capitolo sulla conoscenza isola l'apertura ed i suoi segreti" (Vol. 2, p. 505).

24 Tirati del radice 'JZ che esprime l'impotenza , il verbo a'jaza alla quarta forma, il suo participio attivo mu'jiz ed il suo nome di azione i'jâz rendono i sensi di "prendere il disopra", "ridurre all'impotenza" e di là "fare delle meraviglie" o "dei miracoli."

Si sarà notato probabilmente che sembra si passi indifferentemente da Fath a Futûh ed è il momento di spiegare perché, ciò ci conduce del resto a sollevare una questione di grammatica che porta alle differenti varianti del titolo delle Futûhât. Difatti, sebbene non ne alterino il senso fondamentale, esse sono vera-mente sorprendenti, senza per altro immaginare che la memoria dell'autore fu manchevole soprattutto a proposito di un tale libro, o che non accordasse loro che un'importanza relativa e che questa approssima-zione fosse l'effetto di una semplice comodità, perché si sa peraltro, ed lì si ritornerà, sotto quali auspici scriveva lo Sceicco al-Akbar secondo la sua propria testimonianza.

Da una parte, come abbiamo segnalato, o constatato che arriva da Ibn 'Arabî di designare il suo lavoro con il titolo Al-Fath al-Makkî25, ma di altra parte, l'intitola pure Al-Futûh al-Makkî26. Si ha così due tipi di singola-re apparentemente intercambiabili al posto del plurale aspettato Futûhât che l'autore cita abitualmente e particolarmente nella prefazione. Ci si può chiedere, visto ancora una volta il suo rigore terminologico, se lo Sceicco non fa sostenere un ruolo alle sfumature del titolo quando passa, in tre vocaboli, da un singolare che suggerisce il carattere unico della Vittoria suprema ad un plurale che insiste al contrario sulle forme molteplici che è suscettibile di prendere. Non ci sarebbero inoltre delle corrispondenze da stabilire coi tre aspetti di presa di possesso della Mecca simboleggiati dalla serie delle tre Conquiste?

Sottolineeremo ancora che il termine Futûh occupa una posizione mediana tra Fath e Futûhât e poiché è ambivalente può essere analizzato da due punti di vista distinti. Eccetto il singolare considerato fino qui, la forma Futûh è anche quella del plurale di Fath e ci si rende conto allora che questo termine è dotato di una doppia funzione che è quella tipica dell’intermediario il cui ruolo consiste nel partecipare della natura di due termini estremi in un ternario. Il titolo Al-Futûh al-Makkî rinvia alla prima accezione dello schema fu'ûl su cui è costruito Futûh e citeremo incidentalmente come altra variante Al-Futûh al-Makkiyyah27 che è se-gnalato e che, se non si tratta di un lapsus calami, rivelerebbe la seconda accezione28. Comunque sia, è molto istruttivo osservare che le due versioni Futûh e Futûhât sono menzionate dall'autore nel corpo di uno solo stesso libro, sia nelle Futûhât all’inizio o alla fine delle parti costitutive del testo, che nei Fusûs, in con-testi che sono allora molto significativi; perché se si accorda tutto il credito che esige la sua provenienza eccezionale di quest’opera damascena e, di conseguenza, all'impeccabilità della sua formulazione, si ha la garanzia che le leggere differenze sono volute realmente ed ispirate. Sappiamo difatti che lo Sceicco rispo-se all'ordine profetico di propagare i Fusûs pubblicandoli, secondo il suo proprio dire: "come mi ha fissato i limiti l'inviato di Allah, senza aggiunte né omissioni". 29 È nel capitolo finale, dedicato alla "pietra sigillare della Saggezza singolare nel Verbo moammadiano" che singolarmente è adoperato il titolo al singolare30. Mentre, particolarmente a proposito di "un Saggezza mâlikiyyah (intendendo proprio al Re) nel Verbo di Zaccaria", si trova il plurale Futûhât31 che è, si lo è visto, in relazione con gli asrâr al-Mâlikiyyah diversamen-te detti i segreti propri del Re.

La grammatica deve essere concepita innanzitutto da un punto di vista sacro poiché appartiene al campo delle scienze tradizionali ed, a proposito di queste ultime, René Guénon sottolineava i due ruoli comple-mentari che sono loro propri:

 "da un lato, come applicazioni della dottrina, permettono di collegare tra loro tutti gli ordini di realtà, di integrarli nell'unità della sintesi totale;

 dell'altro sono, almeno per certi ed in conformità con le attitudini di questi, una preparazione ad una conoscenza più alta, un tipo di instradamento verso questa ultima e, nella loro ripartizione gerarchica secondo i gradi di esistenza ai quali si riferiscono, costituiscono allora tanti pioli coll'aiuto dai quali è possibile alzarsi fino a l’intellettualità pura.32

25 Kitâb al-Mîm wa al-Wâw vta al-Nûn, p. 2, Rasâ il (Hyderabad, 1948

26 Fusus, p. 221 (Ed. 'Afifi).

27 Cf. O. Yahia, Histoire et classification de l'oeuvre

29 Fusûs (Bd. 'Afifi), Introduction, p. 47.

30 Ibid., p. 214.

31 ibid. p. 177.

32 la Crisi del Mondo moderno, cap. 4.

Guénon attirava ancora l'attenzione sul fatto «che un semplice trattato di grammatica, o di geografia, o addirittura di commercio, possa avere nello stesso tempo un altro senso ed essere a tutti gli effetti un lavo-ro iniziatico di alta portata».33 Tenendo conto di queste considerazioni , è interessante approfondire certe particolarità morfologiche della parola Futûhât allo scopo di afferrarne meglio le finezze.

Il plurale è chiamato in arabo al-jam’, ma questo ultimo termine, dai significati numerosi, serve nell'esoteri-smo islamico a definire un stato iniziatico che si può tradurre con quello di "Unione": «Questo è, - ci dice Ibn 'Arabî - che Dio solo è, senza che nessuna creazione sia con Lui»34. Similmente, Qâshânî ha questa formula lapidaria: «È la contemplazione di Dio senza creazione».35 Allo stesso tempo, esiste in arabo un jam' al-jam' o plurale di plurale che significa l'unione dell'unione e , nella terminologia sufi, descrive un gra-do iniziatico più elevato del precedente poiché si tratta dell'unione suprema. Ibn 'Arabî lo definisce come segue: «è l'annientamento totale in Allah». 36

Secondo Jurjânî: «è la stazione più estrema e perfetta, più sublime che l'unione. L'unione consiste nel con-templare le cose per Allah ed a liberarsi dalla forza e del potere che viene da altro che Allah. L'unione dell'unione, sono l'annientamento totale e l'estinzione a tutto ciò che è altro da Allah. È il grado dell'unità pura».37 Il capitolo 222 della Futûhât è interamente dedicato a questa nozione e per precisare meglio il pensiero dello Sceicco, ecco ciò che ne dice dopo una veloce ricapitolazione di definizioni classiche:

 «secondo noi, al - jam è che tu realizzi l'unione di quello per cui tu sei qualificato unendo quello per cui tu sei qualificato con i Suoi Attributi e Nomi e che tu realizzi l'unione di questo per cui Allah si è qualifi-cato tra i tuoi attributi e nomi, in modo tale che tu sia tu e che sia Egli.

 Jam' al-jam' è che tu realizzi l'unione tra ciò che gli ritorna e ciò che ti ritorna e che riporti il tutto a Lui, conformemente a queste due parole coraniche: Ed a Lui si riporta l'ordine tutto intero38 [...] non è forse che tutte le cose finiscono ad Allah? 39.

In funzione del numero che si attribuisce a Futûh, singolare o plurale, i Futûhât si trovano essere sia un plu-rale semplice, o un plurale al secondo grado, ma è in questo ultimo caso che diventano l'espressione della più alta spiritualità. Non devono più essere considerate solamente come una "Summa" - che è una delle traduzioni possibili di jam' - ma propriamente come la "Somma delle Somme", in analogia dunque col Co-rano che costituisce la "Summa delle Parole." Un caso di plurale di plurale, ottenuto con le stesse flessioni casuali di Fath, è dato come esempio dai grammatici: si tratta di bayt40 casa di cui il plurale è buyût al primo grado e huyùtât al secondo. Il senso dei due plurali non è non in questo caso identico, il primo rinvia piutto-sto al significato concreto e materiale di "casa", il secondo a quello più astratto di "famiglia", che equivale a dire "le persone della casa". L'esempio proposto ha di sorprendente che coincide con ciò che può desi-gnare la Casa divina, oggetto per eccellenza della Questua che ha motivato la Conquista storica della Mec-ca. Motiva ancora oggi, nel campo spirituale, tutti i pellegrini e gli akbariani tra loro beneficiano evidente-mente di un supporto ideale con le Futûhât di cui il senso primo ricorda ogni momento che per essere ac-cessibile e resa ai suoi, la Casa ricercata deve essere aperta.

33 "il Siphra di-Tzeniutha", Velo di Isis, déc. 1930, pubblicato in Forme tradizionali e cicli cosmici.

34 Isfilâhât n° 37, 'Rase, Hyderabad, 1948.

35 Isfilâhât n° 55, U" Cairo, 1981, p. 41.

36 Isfilâhât n° 38.

37 Op. cit., p. 77, n° 536, p. 154 della traduzione di M. Gloton.

38 Corano, 11,123.

39 Corano, 42, 53.

40la parola bayt, in quanto costruzione, può essere applicata a tutto ciò che è costruito, dalla camera fino al tempio. Può così designare una casa, si che si tratti di un edificio che di una capanna. Sono dei buyûty gli scaffali che celano le immagini dei 313 Inviati nel baule di Eraclio, (L'islam e la funzione di René Guénon, p. 89). Lo segnaliamo perché la questione del Tabût non è così lontana come sembra della Risâlah delle Futûhât.

domenica 17 aprile 2011



SAGGIO SULLE ALLUSIONI SOTTINTESE NEL TITOLO «MESSAGGIO NELLE VISIONI DELLA MECCA SULLA CONOSCENZA DEI SEGRETI DEL RE E DEL REGNO
(Risâlah al-Futûhâl al-Makkiyyah fi Ma 'rifah al-Asrâr al-Mâlikiyyah wa al-Mulkiyyah)

"Allahumma, apri per noi le porte della tua misericordia"  (1)

Parte prima di tre (questo articolo è stato tradotto leggendo l'originale in francese qui, per ogni dubbio od imprecisione si rimanda al testo originale)
Al-Futùhât al-Makkiyyah è il titolo molto conosciuto ed abitualmente impiegato, dell’opera di Ibn 'Arabî qui esaminata, ma si può notare che non si fa quasi mai accenno all’intera dicitura come specificata dallo stesso autore. Questo titolo è menzionato nella dedica della Prefazione: "Ho registrato questa epistola incomparabile che Dio ha esistenziato come un amuleto che preserva dall'ignoranza, l'ho intitolata Messaggio sulle Aperture Della Mecca sulla Conoscenza dei Segreti del Re e del Regno, perché la maggior parte dalle cose che ho messo provengono da ciò che Allâh mi «ha aperto" (mostrato), durante il mio giro rituale intorno alla Sua Casa illustre, o mentre ero seduto a contemplarlo nella Sua nobile cerchia venerata.»2

Questa assenza generalizzata di riferimenti al titolo intero si spiega certamente con la sua stessa lunghezza e probabilmente anche per una certa incomprensione delle realtà che riprende. Ma in fondo, la vera ragione non potrebbe essere una sorta di prudenza e di rispetto o buona creanza che si deve avere nei confronti di una dottrina fondamentale e misteriosa la cui esposizione doveva sopraggiungere solamente in un determinato momento?

L'allusione alla Mecca, Centro del Mondo in una visione islamica e la menzione dei "segreti del Re e del Regno" mostra con evidenza che questo titolo rinvia immediatamente alla funzione sovrana del "Re del Mondo." È René Guénon che ne ha esposto la dottrina; è fondato affermare che per merito di questa presentazione pubblica, risulta possibile una migliore comprensione delle Futûhât determinata da un’ottica finale3. È parimenti legittimo concludere che la rivelazione delle Futûhât si inserisca in un processo cronologico di estrinsecazione e di universalizzazione di una dottrina di carattere centrale.4

La pubblicazione della dottrina del "Re del Mondo" di René Guénon deve essere considerata come un "segno dei Tempi." L'uscita nel 1924 della traduzione del libro Bestie, Uomini e Dei di Ferdinando Ossendowski fu la causa occasionale invocata per giustificare tale divulgazione. Tuttavia, anche se allora servì da pretesto, il ruolo di questo libro fu secondario ed apparente ma permise di rivestire ragioni più profonde. Per convincersene, basta notare che a quell’epoca ebbe luogo un doppio movimento simultaneo, di messa a punto e di occultazione: l'apparizione pubblica di questa dottrina corrispondeva in realtà alla scomparsa delle funzioni più elevate in seno a tre delle forme tradizionali principali dell’Oriente.5

In relazione con certe idee cicliche di cui deteneva la chiave, si constata che è in questo momento che René Guénon redige i suoi primi articoli sul "Re del Mondo".6 L'anno 1924, fatale in questi riguardi, fu quello dell'abolizione del Califfato ottomano7 successivamente, poi della morte dell'ultimo Bogdo-Khan ed infine della soppressione definitiva del titolo di imperatore della Cina.

Questo anno fissa dunque la fine delle ultime grandi funzioni che reggevano l'ordine, particolarmente quello temporale, ancora sussistenti nelle tradizioni orientali e che erano, nel loro ambito, delle rifrazioni di aspetti agenti della funzione unica del "Re del Mondo". Nella misura in cui i fatti storici traducono, secondo le loro modalità, delle realtà superiori, c'è interesse a seguirne lo svolgimento ed è questa la ragione per cui René Guénon accordava loro molta attenzione, come dimostra particolarmente la sua risposta ad un articolo del Giornale di Italia dove menzionava con precisione la prossima fine della funzione califfale. A questo proposito evocava ciò che è "il vero panislamismo tradizionale”, affermazione puramente dottrinale di un diritto tutto ideale e senza alcun rapporto con qualsiasi mira politica e "i rapporti stretti che presenta questa domanda del panislamismo con quella del Califfato che si è posta già con una certa acutezza durante questi ultimi anni, e che dovrà essere risolta necessariamente dopo la caduta, oggi imminente dell'impero ottomano."8

Forse non si è calcolata tutta l'importanza, né si è compreso il vero significato della pubblicazione di una prima versione del "Re del Mondo" fin dal 1924. Infatti nell'emergenza e tenendo conto della gravità degli avvenimenti che abbiamo appena menzionato, occorreva che si venisse immediatamente in aiuto di quel che rischiava di diventare irrimediabile e soprattutto senza alternativa, ovvero della perdita di ogni contatto con quelli il cui incarico consiste normalmente nell’assumere l'immanenza delle funzioni divine di governo. L'intervento di René Guénon si inserisce così in un'economia provvidenziale che mira al ristabilimento di un legame effettivo e questo volta diretto, col Centro supremo9. Riferendosi alla sorgente di questi poteri, dunque alle gerarchie originali che stanno a monte di ogni tradizione, René Guénon riporta direttamente le coscienze all'origine comune, cioè alla sede primordiale ed inviolabile da dove emanano i differenti mandati di questi rappresentanti nascosti e senza successori10.

Ogni eliminazione di istituzioni sacre nell’ambito tradizionale trascina necessariamente, come contropartita, l'uscita e la propagazione di una forma deviata, addirittura ribaltata dell’istituzione stessa. Su questo argomento, senza entrare troppo nei dettagli, torna utile ricordare un certo numero di fatti storici il cui senso simbolico permette di percepire meglio il significato reale. Abbiamo detto che l'abolizione del califfato è stata decretata nel 1924. Questa abolizione generò, nella tradizione islamica , un certo numero di capovolgimenti ragguardevoli sia nel campo temporale che nell’ambito spirituale.

Certi lavori récenti11 hanno nettamente evidenziato quanto i Califfi ottomani garantissero il diffondersi degli insegnamenti dello Sceicco al-Akbar che, in un certo modo, li legittimava. A titolo di esempio, ricordiamo che il secondo sultano ottomano, Orhan Ghazi, chiese a Da'ûd al-Qaysarî (m). 751/1350, discepolo di Kamâl al-Dîn al-Qâshânî, a sua volta discepolo di Sadr al-Dîn al-Qûnawî, di dirigere e di insegnare nel primo madrasa stabilito nella città, allora recentemente conquistata di Iznik [= Nicea]. Ciò significa che l'insegnamento ufficiale fu inizialmente animato da un grande maestro della scuola akbariana »12.

Nel 1516, la prima azione dell'imperatore Sélim I, padre di Sulaymân il magnifico, dopo la sua vittoria sui Mammalucchi e la conquista di Damasco, fu di andare a "scoprire" la tomba dimenticata di Ibn 'Arabî e di costruire un mausoleo ed una moschea adiacente, cosa che manifesta la riverenza che portava personalmente al Dottore, ma si sa anche che tutto l'esercito anatolico era "nutrito” dal più semplice soldato fino al sultano, se non dell'insegnamento di Ibn 'Arabi, quanto meno di una grande venerazione per lui»13. "La posizione pro-akbariana degli ottomani diventa sotto Sulaymân una questione di stato [...] al-Fâlûjî viene condannato a morte dalle autorità e dal Cadì di Aleppo per avere tacciato di eresia lo Sceicco al-Akbar [...] il sultano esonera dalle sue funzioni il Muftì Jawî-zâdeh "perché attacca lo Sceicco Muhyi al-din Ibn Arabî 14. Un fatwâ del Sayt al-lslâm Ibn Kamâl Pacha (m 940/1534), "la personalità più nota nell’appoggiare il sigillo dell'ortodossia della dottrina di Ibn Arabî", è stata pubblicata in arabo da M. Geoffroy15. Tenuto conto della sua importanza dottrinale e del suo chiarezza, la riprendiamo a nostra volta, traducendola.

  • "Nel Nome di Allâh il Tutto-misericordioso, il Molto-misericordioso.”
  • Lode a Colui che, tra tutti quelli che Gli tributano un culto puro, ha fatto dei Suoi servitori gli eredi dei Profeti e degli Inviati; e che la preghiera sia compiuta su Muhammad che è nato per correggere gli smarriti e quelli che si smarriscono, così come sulla sua Famiglia ed i suoi Compagni, gli interpreti autorizzati del diritto islamico chiamato a spargere la Legge ferma ed evidente.
  • Oh voi uomini, sappiate che lo Sceicco supremo (al-A'zâm) fu un più che nobile modello, polo della santa conoscenza e capo di quelli che professano la dottrina dell'unità, Muhammad Ibn al-'Arabî at-Tâ'i al-Hâtimî al-Andalûsî, giurista (ispirato) compiuto e guida eccellente, beneficia di virtù meravigliose, di grazie straordinarie, e di discepoli in moltitudine, riconosciuto da scienziati e personaggi illustri. Chiunque gli vada contro si ritrova nell'errore e chiunque persista in questo atteggiamento è smarrito. Il sultano ha il dovere di rieducarlo e di obbligarlo a cambiare convinzioni, dato che al sultano tocca l'ordine del bene (ammesso) e l'interdizione da tutto ciò che è negativo. È l'autore di numerosi lavori tra cui le Gemme sapienziali (Fusûs hikmiyyah - sic! ) e delle Aperture della Mecca. Certe domande che affronta hanno un'espressione ed un senso percepibile e conforme all'ordine divino senza che sia necessario godere di una rivelazione intuitiva o iniziatica. Per chi non riesce ad issarsi fino allo scopo ricercato tace al livello in cui si trova il suo lettore, a causa di questa Parola di Colui che è Molto in Alto: E non inseguire quello di cui sei privato dalla scienza. L'udito, la vista ed il cuore: su tutto ciò sarai interrogato e reso responsabile Corano 17, 36.
  • “ Allah è la Guida verso la Via di accesso diretto. "
La relazione tra gli insegnamenti di Ibn 'Arabî che fu eletto al Centro supremo ed i rappresentanti della funzione del Re del Mondo nell’Islam: i Califfi ottomani, non è mai stata smentita e la presenza di numerosi manoscritti dello Sceicco al-Akbar e dei suoi discepoli in Asia Minore la prova16.
La caduta del Califfato ottomano nel 1924 segna la fine della protezione di cui godeva lo spiritualità akbariana. Questa caduta portò lo Sharîf Hussayn, sovrano ereditario della Mecca e custode dei Luoghi Santi, a proclamare su di sé il Califfato, cosa che scatenò l'ostilità immediata degli wahhâbiti sauditi, e la loro conquista della Mecca l’anno seguente. I nuovi conquistatori dei Luoghi Santi, non solo non sosterranno l'insegnamento di Ibn 'Arabî, ma ne diventeranno i più ostinati avversari appoggiandosi sulle tesi di 'Abd al-Wahhâb17 la cui ispirazione teorica essenziale si trova generalmente negli scritti del più notevole oppositore alla dottrina di Ibn 'Arabî e del sufismo: Ibn Tavmiyya18. Da allora, le tesi di quest’ultimo sono state sostenute e conosciute con una diffusione sempre più crescente.

Il tempo passa e i criteri di ortodossia e di eterodossia finiscono con il ribaltarsi. Bisogna sapere che Ibn Tavmiyya fu, nella sua epoca, condannato e trattato da eretico e da miscredente. I suoi attacchi contro Ibn 'Arabî e gli sceicchi sufi, così come la sua negazione dell'intercessione del Profeta, gli valsero l’arresto nelle prigioni del Cairo; più tardi, a Damasco, la sua fatwā che bandisce le visite alle tombe dei profeti e dei santi gli varrà ancora una carcerazione nella Cittadella. Il suo rifiuto dell'invocazione (istigâta) del Profeta lo fa tacciare di “zindîq" (eretico) dal giurista Ibn Hajjar. Questo muftì shafiita ha compilato una lista di pratiche "devianti" (bid'a) di Ibn Tavmiyya e ha concluso «il suo kufrE è evidente e manifesto»19, questo significa secondo la sua miscredenza. Non c’è da stupirsi se oggi, in questa era degli sconvolgimenti, si tenti di imporlo come norma e fustigando come è stato fatto fino ad ora, l'insegnamento autorizzato di Ibn 'Arabî e della sua scuola.20

L'anno in cui René Guénon scrisse Oriente ed Occidente, le "rivoluzioni" entrarono in una fase decisiva, e si assiste nel mondo islamico ad una sorta di imitazione all’inverso di un importante episodio profetico di cui parleremo in seguito,episodio che diete il suo titolo al lavoro di Ibn Arabî: Le Conquiste della Mecca 21. Alla conquista materiale e politica della Mecca da parte degli wahhâbiti, di cui si rileva ora una posizione egemonica crescente, si oppone la spiritualità dello Sheikh al-Akbar che non è obbligatoriamente legata al loro partito, né unicamente ad appoggio geografico che è sempre suscettibile di essere in qualche modo “conquistato”. Nel momento in cui l'opera dello Sheikh al-Akbar rischia di cadere nel discredito ufficiale, e, alla lunga, nella dimenticanza, è René Guénon che interviene e ricorda, opportunamente fin dal 1924, nell’Esoterismo di Dante,22 riferendosi ai lavori di Asin Palacios, «i multipli rapporti che esistono, per il fondo ed anche per la forma, tra la Divina Commedia (senza parlare di certi passaggi della "Vita Nuova e del Convito), da una parte, e, d'altra parte, il Kitûb el-isrâ (Libro del Viaggio notturno) ed il Futûhât el-Mekkiyah (Rivelazioni della Mecca) di Mohyiddin Ibn Arabi, opere anteriori di ottanta anni circa.» 23 Di più, René Guénon, sempre lui, afferma l'importanza estrema dell'insegnamento e della funzione di Muhyi-d-Dîn che « è chiamato «Esh-Sheikh el-Akbar» questo significa il più grande dei Maestri spirituali, il Dottore per eccellenza, la sua dottrina è essenzialmente puramente metafisica e parecchi dei principali Ordini iniziatici dell'islam, tra cui quelli più elevati e chiusi allo stesso tempo, procedono direttamente da lui.»

Ivan Aguéli ('Abd al-Hâdî nell’Islam) aveva già compreso l'interesse insigne delle opere di Ibn 'Arabî. Alla sua morte, è René Guénon che solo in Europa restò a continuare ed a sviluppare inizialmente in una prospettiva totalmente universale l’opera abbozzata dagli Akbariyyah." 24  Ha permesso così a certi occidentali di origine, come Michel Valsan ed i suoi continuatori, di concentrare l'essenziale delle loro ricerche e del loro impegno tradizionale. Ha favorito la diffusione della dottrina akbariana grazie alla quale si è potuto riscoprire, nella cornice di un insegnamento molto completo, i termini essenziali di una spiritualità e di un intellettualità pura, trascendente e universale.

Da un punto di vista iniziatico, è senza dubbio inutile insistere su di un interesse "oggettivo” sulla Mecca e sulla Ka'bah. Dopo avere considerato la possibilità di una "rottura di ogni legame cosciente col centro spirituale del mondo", è sotto forma di un richiamo che René Guénon invitava gli uomini a riprendere coscienza di "qualche cosa che è nascosto piuttosto che veramente perduto, poiché non è perso per tutti e certi lo possiedono ancora integralmente; se è così, altri hanno sempre la possibilità di ritrovarlo, purché lo cerchino come conviene, questo significa che la loro intenzione sia diretta in modo tale che, per le vibrazioni armoniche che sveglia secondo la legge delle "azioni e reazioni concordanti", possa metterli in comunicazione spirituale effettiva col Centro supremo25.

Questa direzione dell'intenzione, ha la sua rappresentazione simbolica in tutte le forme tradizionali, parliamo dell'orientamento rituale: questo, difatti, è propriamente la direzione verso un centro spirituale che, qualunque sia, è sempre un'immagine del vero "Centro del Mondo".26 L'autore aggiunge in nota che "nell'islam, questo orientamento (qiblah) è come la materializzazione, se ci si può esprimere così, dell'intenzione (niyah)."27 Ed il ruolo dell'intenzione essendo sottolineato qui, bisogna sapere ancora che i lettori ai quali René Guénon si rivolge sono innanzitutto gli uomini di "intenzione diritta" e di "buona volontà" che cita a più riprese nel Il Re del Mondo.

Occorre precisare ancora una cosa per avvertire, per quanto possibile, delle eventuali critiche che puntualmente arrivano quando sono esposte pubblicamente delle nozioni di un carattere insolito: si tratta del titolo di "Re del Mondo." René Guénon faceva notare che questo titolo "in ebraico ed in arabo è applicato correntemente a Dio stesso" ed egli notava in questo contesto che c'è una grande differenza di senso tra "il Mondo" e "questi mondi", a tal punto che in certe lingue, esiste per designarli due termini interamente distinti: così, in arabo, "il Mondo" è el-'Alam mentre "questo mondo" è “ed-dunyâ.28"

Non dava tuttavia nessuna delle due espressioni aspettate in queste lingue: Melek h-'Ôlam29 o Mâlik al-'Âlam, non più che Malik al-dunyâ, e di fatto, il Corano menziona, in quanto a lui, il "Re del Mondo" sotto la forma Mâlik al-Mulk30. Nella prefazione delle Futûhât, Ibn 'Arabî trascrive questa Decisione divina: "In verità, voglio creare a causa tua, oh Muhammad, il Mondo che è il tuo Regno"31 che identifica per l'occorrenza al-'Alm, il Mondo, con il Mulk, il Regno, o la Monarchia secondo i casi32. È nel capitolo 71 che l'autore ne spiega la ragione che dice che Allah nel versetto Dice: Allahumma, Mâlik al-Mulk, ha chiamato "il Mondo” Mulk per poter dare a Lui il Nome Al-Mâlik, non ha detto difatti Mâlik al-Alam33. Per non anticipare troppo su questo argomento, adesso dobbiamo ritornare all'analisi dal titolo completo delle Futûhât.


NOTE
1 Preghiera che è consigliato di recitare entrando nella Moschea e che Ibn 'Arabî riporta all'inizio della "Conclusione del capitolo [560] sigillo del libro [delle Futûhât]", Vol. 4. p. 551.
2 Futûhât. Vol. 1. p. 10.
3 L'esempio dell'investitura dello Sceicco al-Akbar descritto nella Prefazione che Michel Vâlsan ha tradotto e commentata conformemente al dottrina guénoniana, mostra tutto l'interesse di un riferimento al Centro della Tradizione universale e non solamente a quello legato alla modalità storica dell'islam. Cf. "L'investitura dello Sceicco al-Akbar al Centro supremo", articolo costituito principalmente con la traduzione di "Estratti sulla Prefazione delle Futûhât", E. T., ott. - nov. 1953, oramai capitolo 9 di L’Islam e la funzione di René Guénon, Parigi, 1984.
4 Non si tratta sotto questo aspetto di un caso unico. Altri insegnamenti, in tutte le tradizioni, devono così conoscere una rivelazione progressiva del loro pieno significato affinché si rimanifesti alla fine l'unità della dottrina metafisica mascherata con il vestito delle forme particolari. A proposito del vero senso dell’opera di Dante, che è legata a più di un titolo a quella di Ibn 'Arabî, René Guénon affermava che "il segreto doveva essere conservato per sei secoli, (il Naros Caldeo)" prima di precisare: "la necessità, per gli studi di questo genere, di una conoscenza delle "leggi cicliche", - completamente dimenticate dall'occidente moderno" "Il linguaggio segreto di Dante e dei "Fedeli di amore"", in fine, Velo di Isis, febb. 1929, pubblicato in Idee sull'esoterismo cristiano. Si può citare come altro esempio la rivelazione del Sacro-Cuore.
5Questa spiegazione può essere messa in corrispondenza col periodo ciclico dove la residenza della Sakînah, la "Presenza reale della Divinità" o 'Grande Pace", perse il suo supporto esterno che era l'arca dell’alleanza. A questo riguardo il Corano non menziona l'arca che nell’occasione di una manifestazione della Monarchia: «Ed il loro Profeta [Samuel] disse loro: In verità i credenti quando ti hanno prestato giuramento [per la mano, a te, Profeta], sotto l'albero, sapeva ciò che c'era nei loro cuori, così fece scendere la Sakînah su essi e li gratificò di con una prossima Fath (vittoria) (48, 4 e 18). Tra i credenti figura su tutti il Messaggero divino: Ed Allah fece scendere la Sua Sakînah sul Suo Inviato e sui suoi credenti(48, 26). Attraverso la rivelazione dei versetti di questa sura, di cui il nome [Al-Fath = La Vittoria]è in corrispondenza col titolo delle Futûhât, erano suggeriti il compimento effettivo ed il consenso di un piccolo pellegrinaggio, sebbene sotto una modalità inattesa dato che il centro visibile di questo progettato pellegrinaggio era stato reso inaccessibile dai Coraisciti, che rifiutavano ai musulmani l'entrata nella Mecca.
6 "Il Re del Mondo", data di novembre 1924, I Quaderni del mese, nostri 9-10 intitolati "Le Chiamate dell'Oriente", Emile-Paul, Fratelli, Editori, Parigi, 1925, e riproduce in quel numero di Scienza sacra; Il Re del Mondo. Atanòr, n° 12, dicembre 1924. Guénon aveva già partecipato ad una Tavola Rotonda radiodiffusa, animata da Federico Lefèvre e pubblicata in Le Notizie Letterarie del sabato 26 luglio Documento privato. Già nel 1921, questa domanda è trattata nell'introduzione generale allo studio delle Dottrine indù, 2° parte, cap. 2. Cf. anche Oriente ed Occidente (l° parte, cap. 4) Parigi, 1924.
7 È Costantinopoli che fu, a partire da 1453, la sede del Califfato per tutti gli islamici. Questo luogo privilegiato della geografia sacra gioca un ruolo determinante nell'escatologia - ne è fatta particolare menzione nella tradizione profetica e da Ibn 'Arabî nel capitolo 366 dei Futûhât dedicato ai Ministri del Mahdî "esterno" alla fine dei Tempi -, fu dapprima sede dell'impero romano a cui spettava in particolare il titolo di Vicarius Dei, che è uno dei sensi della funzione califfale.
8 Documento privato. Già in 1921, questa questione è trattata nell'introduzione generale allo studio delle Dottrine indù, 2° parte cap. 2. Cf. anche Oriente ed Occidente (1° parte, cap. 4) Parigi, 1924.
9 Si sa, secondo tutti gli insegnamenti tradizionali, che la gerarchia di questo Centro, costituita dai "Viventi", sarà chiamata a manifestarsi in un momento finale per ristabilire i legami corrotti ed assicurare il passaggio di questo ciclo ad un altro. Un tale intervento si inserisce nella fase preparatoria che corrisponde alla messa a punto di questa dottrina.
10 il riassorbimento di queste funzioni esterne ricorda quella delle facoltà dell'essere al momento della sua morte. Dal punto di vista microcosmico, è l' "anima vivente" che rappresenta il Re del Mondo perché, come insegna la Brihad-Aranyaka Upanishad: "è questa "anima vivente" che, come riflesso del "Sé" e principio centrale dell'individualità, governa l'insieme delle facoltà individuali, considerate nella loro interezza, e non solamente in ciò che riguarda la modalità corporale. Come i servitori di un re si riuniscono intorno a lui quando è sul punto di intraprendere un viaggio, così tutte le funzioni vitali e le facoltà, esterne ed interne, dell'individuo si uniscono intorno alla "anima vivente"", L'uomo e suo diventare secondo il Vedanta, cap. 18.
11 Sempre più spesso alcuni scritti universitari assumono un impegno tradizionale autentico. L'influenza, ad un livello o maggiore o minore, dell'insegnamento di René Guénon o di quello di Michel Vàlsan su alcuni di loro è nettamente evidente nel campo degli studi akbariani, anche se i riferimenti espliciti a questi due maestri restano talvolta discreti. Questa influenza è ancora più netta nelle tesi di dottorato, come quella concernente la Cabbala di M. Nicolas Sed: La Mistica cosmologica ebraica (Parigi, 1981, e quella, in filosofia, di M. Patrick Geay, Ermes tradito,
12 Mustafa Tahrali, " Tratti generali dell'influenza di Ibn 'Arabî nell'Era Ottomana." Journal of the Muhyiddin Ibn Arahi Society, Vol. 26, 1999, p. 46. «Il secondo sultano Ottomano, Orhan Ghazi Da'ûd invitato al-Qaysarî (d. 751/1350), il discepolo di Kamâl al-Din al-Qàshani, a sua volta discepolo di Sadr al-Din al-Qûnawî, essere direttore ed insegnante del primo madrasa, fondato all'Iznik recentemente conquistato. Questo vuole dire che l'insegnamento ufficiale stesso fu messo in moto da un grande padrone della scuola Akbariana. »
13 Riyadh Atlagh, "Paradossi di un mausoleo", in Luoghi dell’Islam, Parigi, 1996.
14 Fric Geoffroy, Il Sufismo in Egitto ed in Siria, Damasco, 1995, p. 134.
15ibid, p. 511. Nella nota 176, p. 1.34, l'autore indica a partire da quale manoscritto è stato stabilito il testo di questa fat-wâ. M. Tahrali, nell'articolo precedentemente menzionato, ne ha tradotto anche la sua maggior parte.
16 Li si trova principalmente ad Istanbul, capitale Califfale rinomata per il suo insegnamento al punto che un grande Sceicco akbariano, Ahmad al - 'Alawi, si rese. Egli ci ha lasciato la sua testimonianza del periodo delle insurrezioni all'epoca della quale fu impegnato la lotta contro il Califfato. Cf. Martin Lings, Un santo musulmano del ventesimo secolo, cap. 3, pp. 92-93, Parigi, 1967. Gli ottomani non sono i soli ad avere privilegiato l'insegnamento dello Sceicco al-Akbar. Per esempio, i sultani della dinastia yemenita Rasulide (1235-1454) erano versati particolarmente nel letteratura sufi e hanno incoraggiato attivamente il suo studio." Le opere di Ibn 'Arabî erano considerate come il "perno dell'educazione sufi" nella città di Zabid (cf). AJexander D. Knysh, Ibn 'Arabî in the later Islamic Tradizion, chap. 9, New York, 1999.
17 1703-1792. lino 1744 fu concluso un patto tra 'Abd al-Wahhâb ed i capi dei saudita quando del quale si ripartirono l'autorità religiosa e la sovranità.
18 1263 - 1328. Cf. Enciclopedia dell'islam, Parigi - Leiden, 1969. E miscredenza, errore.
19 Eric Geoffroy, op. cit., pp. 446-450. In quanto al wahhàbismo, M. Chodkiewicz nota che "offre ad una corrente, fino a quel momento, minoritaria una base politica ed una cassa di risonanza, affinché il puro giurista [Ibn Taymiyya] possa impossessarsi con successo di un magistero abusivo e pretenda di detenere da solo il monopolio di definire un'ortodossia da cui il sufismo è escluso" (Prefazione al lavoro precitato di M. Geoffroy). Da parte sua, M. Riyadh Atlagh ricorda che "lo wahhàbismo è l'ideologia di stato di uno dei paesi arabi più influenti attualmente: l'Arabia Saudita" (art. cit.). Questa influenza si spiega evidentemente per la ricchezza tutta esterna procurata dal petrolio, sostanza oscura sulla quale ci sarebbe molto da dire da un punto di vista simbolico.
20 È diventato sempre più frequente, in particolare all'epoca del sermone del venerdì, nelle moschee finanziate da certe forme di integralismo, o in quelle in cui gli iman sono stati formati a questo spirito, di sentire anatemi contro le opere di Ibn 'Arabi per mezzo di idee tutto preconcette che manifestano in generale una mancanza di conoscenza in proposito di cui sono naturalmente completamente privi quelli che le condannano. Una pecca che necessiterebbe almeno di un po’ di erudizione di cui devono armarsi i ricercatori che se ne interessano. Questi ultimi tendono oggi a lavorare e comunicare a partire da strutture, spesso universitarie, situate la maggior parte in Occidente e, guarda caso, libere di certe costrizioni di espressione. Questa situazione trascina indistintamente in modo allettante e facile l'accusa portata contro tutti gli akbariani di servirsi di Ibn ‘Arabî per muovere guerra all'islam, mentre in realtà, si tratta di mostrare la portata universale di questa tradizione.
21 Come è spiegato più avanti, "Conquista" è una delle traduzioni possibili del parola Futûhat.
22 Pubblicato nella rivista italiano Atanôr in parecchie puntate (aprile, maggio, luglio ed agosto-settembre. Questo lavoro è stato pubblicato in francese in 1925 (Parigi, Ch. Gobba, Libraio, collezione "i Quaderni del Portico"). Si ricorderà anche che "la Sfinge" aveva scritto nel “La France Antimaçonnique”: "Un lato poco conosciuto dell’ opera di Dante", 5 oct. 1911, pp. 433-434, e "L'esoterismo di Dante", 5 marzo 1914, pp. 109-113.
23 L'esoterismo di Dante cap. 5. La traduzione di questo lavoro in italiano è stata fatta da Arturo Reghini, e rivista da René Guénon stesso. Il passaggio che abbiamo appena citato è pagina 195 del numero di luglio di Atanor: « i multipli rapporti che esistono, per il fondo ed anche per la forma, tra la Divina Commedia (senza parlare di certi passaggi della "Vita Nuova e del Convito), da una parte, e, d'altra parte, il Kitûb el-isrâ (Libro del Viaggio notturno) ed il Futûhât el-Mekkiyah (Rivelazioni della Mecca) di Mohyiddin Ibn Arabi, opere anteriori di ottanta anni circa. »
24 Michel Vâlsan, L 'Islam et la fonction de René Guénon, cap. 1. Sulla "société Akbariyyah", cf. ibid.
25 "Ciò che abbiamo appena detto permette di interpretare in un senso molto preciso queste parole del vangelo: "Cercate e troverete; chiedete e riceverete; bussate ed e vi sarà aperto"", Mt. 7, 7 e LC. 11, 9. L’ "opera" qui menzionata può essere messa in relazione con quella che figura anche nel titolo delle Futûhât.
26 Le Roi du Monde, cap. 8.
27Cf. “Simboli fondamentali della Scienza sacra” cap. 8 dove aggiunge che è con l'intenzione che "tutti i poteri dell'essere devono essere diretti verso il Principio divino"; Il Simbolismo della Croce, cap. 8, dove l'intenzione è messa in relazione col "Centro del Mondo" ed la Sakînah.
28 Il Re del Mondo, cap. 3.
29 In una nota del 1949, preciserà però che questa espressione "che ritorna così spesso nei preghiere israelite e che si rivolge a Dio, non può significare evidentemente altro che "Re del Mondo"", £ T., p. 193.
30 Corano 3, 26. Questo Nome composto può tradursi testualmente "Re del Regno." l'espressione appare sotto forma di un pleonasmo, ma in arabo rinforza la qualità inerente all'agente, come Ibn 'Arabî indica qui in seguito.
31 Futùhat. Vol. 1, p. 4
32 per spiegare l'applicazione della funzione reale che passa tra Dio e il Profeta, si ricorderà che René Guénon considerava le teorie della Kabbala ebraica concernente gli "intermediari celesti"; la Shekinah e Metatron, e noi mostreremo più avanti che corrispondono a due aspetti del Realtà muhammadienne.
33 vol. I, P. 618. Per quel che riguarda l'espressione Malik al-dunyâ, la si incontra nel Sufismo, per esempio negli Ahhâr Al-Hallâjy congiuntamente all'espressione al-Ahirah che designa l' "Altro Mondo", n° 8, p. 23 in arabo e p. 111 in francese (Parigi, 1975).

venerdì 1 aprile 2011

Il Cuore nello Shivaismo Tantrico
seconda parte

Nei Tantra, si incontra abbastanza di frequente l'espressione di "Cuore universale", "Cuore divino" o "Cuore del Signore." Terminologia che è sempre in relazione alla nozione di "vibrazione" (spanda), secondo i commenti:
  • L'universo intero deriva da una vibrazione originaria, che è detta fuori dal tempo, da uno stress (big bang), o da una vibrazione o pulsazione:
  • l'universo "batte" e vibra. Questa pulsazione, questa vibrazione, è eterna.
  • È il Cuore dello Shiva supremo (Paramashiva), detto anche:
Bhairava, il Terribile,
tattva o mahâsattvâ (Realtà estrema),

svarûpa (essenza),
shûnyatâ (vacuità),
âtman (Sé),
Coscienza assoluta (chiti, chaitanya, samvid)
  • sua caratteristica essenziale è la libertà (svâtantrya).
Questa Coscienza è sovranamente libera e può negare Sé stessa, nascondersi dietro Sé stessa, oscurare la sua essenza, luminosa con l'aiuto della mâya-shakti (energia dell'illusione), dividersi in soggetto ed oggetto, "io" (aham) e "questo" (idam), apparire sotto forma di un mondo molteplice e mutare in tutto ciò con cui "giocherà" a perdersi. Il gioco è l'espressione stessa della libertà, e da questo gioco aspirerà più tardi, quel Sé che niente saprebbe incatenare, a "liberarsi."
Nella sua realtà di base, tuttavia, Paramashiva è immutabile, uguale al Parabrahman delle Upanishad. È Luce indifferenziata, indivisa, inalterabile, a volte coscienza-luce (prakâsha), splendente del suo proprio scoppio, ed energia cosciente (vimarsha) o energia, shakti che prende liberamente coscienza di Sé stessa con un primo brivido, un atto puro e vibrante (spanda), identico al respiro di vita (prâna).
Quel che più di tutto importa comprendere, è che la coscienza del soggetto e quella dell'oggetto, simboleggiate nel tantrismo da una coppia divina (yâmala), ne formano solamente una, non c'è traccia di dualismo ne' di panteismo, di creazionismo o di evoluzionismo, in questa dottrina. Shiva-Shakti costituiscono la realtà indissolubile di Paramashiva o Cuore universale.
Per ottenere questo stato - espressione che è solo un modo di dire perché in verità non c'è niente da ottenere, poiché siamo già questo cuore, - si parla, in alcune scuole, di riconoscenza", (pratyabhijñâ) o di "slancio" (udyama), due modi abbastanza simili per sottolineare il carattere puramente intuitivo, immediato e dinamico di ciò che è chiesto.
la riconoscenza, per ricuperare questa natura basta la propria "shivaità", cioè "riconoscere" questa nel proprio cuore con una presa di coscienza folgorante che non lascia spazio all'alternativa ed al dubbio, illuminazione non progressiva, non programmata, possibile in ogni istante nella percezione di un oggetto qualsiasi, (o lo "si è" o non lo si è, non lo si può essere "a metà").
Lo slancio è ciò che permette l'identificazione con l'assoluto, è un'adesione, improvvisa ed incondizionata della coscienza al fenomeno, come appare all'istante, sul vivo, senza sovrapposizioni. Questo un atto puro è "stupore" (chamatkara), e non si può mai produrre nel mentale che non utilizza che il noto, ma unicamente nel cuore, un solo atto per afferrare il brivido iniziale dell'energia. Ma, affinché questa verità "possa colpirci", bisogna lasciare le astrazioni e sposare la via (che, nella sua forma superiore, diventa una "non-via", anupāya, immergersi nella vita cocente, fatta di sorprese e di ostacoli.
Il mentale è composto di quattro facoltà principali:
  • ragione,
  • memoria,
  • volizione
  • immaginazione passiva, (da distinguere da bhāvanā = creazione mentale, progettazione, , devozione, fede. bhava [bhav] esistenza, presenza, condizioni, stato, l'essenza).
Con nessuna di queste quattro facoltà, né per la loro coniugazione, è possibile raggiungere il risveglio [libera-zione]. Ma, una volta ottenuto il risveglio, "si realizza" che il mentale è anche in Shiva poiché tutto, assoluta-mente tutto è nella Coscienza. Da allora il pensiero è percepito come una forma, una manifestazione della Co-scienza, e cessa di essere una pastoia. Bisogna notare del resto che il "collocamento a morte del manas nel cuore" che è uno dei "tre gioielli" del tantrismo, non implicare la cessazione definitiva di ogni attività mentale. Ciò che è rotto, "ucciso", è la relazione tra l'ego ed i pensieri. Resta un pensiero che però non ha più un "pensatore."


Il tantrismo, in effetti, ha poca stima per la speculazione pura e la rinuncia ascetica. Non svela i suoi segreti che in una pratica, in seno ad un mondo che ritiene "reale" - differentemente dal vedanta di Shankara - poiché Shiva è la Totalità, a volte trascendente ed immanente, e niente, neanche il cambiamento, nemmeno l'illusione o l'ignoranza sono estranee a Shiva.
  • La principale differenza tra i due "non-dualismi", quello del vedānta e quello del Trika, è incentrata sulla concezione della libertà. Il seguace del vedānta pensa essenzialmente a liberarsi", ad essere "libero da", ed egli mette per ciò l'accento sulla rinuncia, l'eliminazione, l'isolamento.
  • L'approccio del Cachemire è inglobante, non esclude niente. È essere "libero di" ma in un senso positivo: "libero di fare".
Questo slancio del cuore che cortocircuita ogni ragione, i dottori del Trika la paragonano alla precipitazione an-simante del padre o della madre che balzano per salvare la vita del proprio bambino; o allo stato interiore dell'uomo che cerca di ricordarsi di una parola dimenticata: dopo sforzi ripetuti e vani, improvvisi la parola sgorga nella coscienza, "come un prodotto diretto del cuore".
Intensificata, canalizzata, dominata, questa energia grezza riceve allora il nome di bhāvanā. Si tratta di una fa-coltà tantrica essenziale, che è impossibile rendere con una sola parola.
  • È al tempo stesso immaginazione creatrice, imaginatio vera, dicevano gli alchimisti, e non imaginatio phan-tastica, (l’immaginale descritto da Corbin)
  • è potere intuitivo, capacità di evocazione sensoriale,
  • concerne i cinque sensi e non solamente la vista, come si crede spesso,
  • ha una elevata plasticità psichica ed una sensibilità spirituale iper-acuta, - la sua energia, in ogni caso, è come si dice, adatta a "fissare" il pensiero, (quasi in senso ermetico) il paradosso che è che, per dare la sua massima resa, non deve essere forzata con uno sforzo corporale o mentale.
  • Allentamento perfetto, acquietamento, "stato naturale" costituiscono il campo o lo sfondo su quale bhā-vanā può spiegarsi pienamente.
Tutte le sensazioni sottili ed ogni evocazione, partono dal cuore, da cui tutto viene e lì tutto si riassorbe. L'interferenza mentale inferiore o egoistica (che sono la stessa cosa, il mentale esiste solamente per la sopravvivenza dell'ego), distrugge lo "stupore" e noi ci rituffa nel mondo della dualità.
Questo accade perché, in questa via, vigilanza e lucidità sono indispensabili, quanto l ' "immaginazione vera." Inoltre bisogna precisare che la spontaneità non è lo "spontaneismo", come lo intendono certe correnti mo-derne. Non si tratta di una "mistica selvaggia", di una questua cieca ed infra-razionale di sensazioni occulte, non è ricerca di inquietudine o di estasi ad ogni costo.
  • Essere aperto alla Totalità non vuole dire accettare qualsiasi cosa.
  • Come ogni via indiana, il Trika suppone dunque un'iniziazione, un clima spirituale, un inquadramento, una prospettiva. La straordinaria libertà e varietà dei mezzi proposti può essere seducente ma non deve far dimenticare per niente la sua esigenza ed il suo carattere irriducibile ad ogni volgarizzazione.
  • Per entrare lì, per non ci si deve perdere, si deve avere una "vocazione", una predisposizione "eroica" o "divina." É un sistema elitario, anche se non si stabilisce su criteri di razza, di casta, di sesso, di morale con-venzionale o di sapere libresco.
  • Là la scelta viene fatta ancora con il cuore e la trasmissione si opererà "da cuore a cuore".
Come schiudere il cuore, come accedere al suo interno? Se il cuore è veramente la porta e la chiave, l'apertura e la via, "l'accesso al senza-accesso" secondo l'espressione shivaita, esistono dei mezzi - oltre alla semplice fede, lo slancio, il fervore - per trasmutare questa certezza teorica in esperienza di vita?
Abhinava-Gupta risponde:
"Occorre che il saggio penetri nel suo cuore nel momento in cui la sua energia è molto eccitata; quando si im-merge nella pura energia soggettiva; quando accede all'estremità di tutte le nâdî; quando l'energia si ritrae nel Sé universale e sboccia, integrandosi a tutto l'universo. "
Uno dai Tantra più venerati del Cachemire, il Vijñâna-Bhairava, dice:
Il primo di questi mezzi fa allusione all' "effervescenza dell'energia" (shaktishobha), allo shock vibratorio che può suscitare, in un essere di sensibilità affinata e dotato anche di vîrya, ( la stessa radice del latino vir = forza, da cui virile ma anche vergine, in sanscrito ha un accezione come di “eroismo,nobiltà”).


Ogni piacere sensuale difatti rinvia all'energia della felicità divina (ânandashakti), o "punta" verso questa beatitudine, o ne è un riflesso se si guardano le cose in senso inverso; ogni desiderio, intimamente, è desiderio del Sé nella sua pienezza. Il godimento, che sia estetico o da innamorati, è per sua natura unificazione, abolisce o sospende la dualità tra soggetto ed oggetto. Il profano vive generalmente questi momenti come se fossero un pignoramento avido od un compenso ad un malessere - un chiarore breve in un'esistenza smorta -
  • lo yogî ci si stabilisce con freschezza lucida fino a ritrovare il "sapore", rasa, della sua vera natura. Assiste in sé allo spiegamento ed al riassorbimento dell'energia, egli, "torna", per così dire, all'energia in coscienza, sposa così il movimento passionale o emozionale, se ne rende padrone e se ne stacca.
Per suscitare lo stupore, per immergere nel cuore vibrante (sahridaya), i maestri del Cachemire ci suggeriscono questo mezzo ma anche, come sullo stesso piano, molti altri. Ascoltiamo Somânanda, fondatore della scuola Pratyabhijñâ:
  •  "Si percepisce la prima vibrazione della volontà nella regione del cuore nel momento in cui ci si ricorda di qualche cosa che si deve compiere, ma che si era dimenticato; nell'istante preciso in cui si apprende una notizia che causa una grande felicità; quando si prova una paura inattesa; quando si percepisce in modo imprevisto una cosa che non si era mai vista; e tanto quando si recita un testo in un modo molto ritmato o durante una corsa scatenata.
  • In queste molteplici circostanze, tutte le energie della coscienza sono frementi (vilolatâ) ed sono mescolate le une con le altre in un solo atto vibrante. " Così tutte le emozioni fortuite della vita (gioia, sorpresa, apprensione, spavento, panico, delusione, vessazione, frustrazione, curiosità, collera, fame, sete, capogiro ed anche starnuto...) possono essere positivamente sfruttate e ri-orientate, almeno quando raggiungono un certo parossismo, una certa intensità vibratoria e soprattutto quando "sono denudate",
  • Nell'istante preciso della loro apparizione, ogni emozione o passione, tutto, ogni tendenza psichica è "pu-ra", unica, indifferenziata; la coscienza la penetra totalmente, la dualità non esiste. L'errore ed il pericolo nascono solamente quando l' "io", in un primo tempo unito all'esperienza, se ne distingue (cosa che accade molto rapidamente), le pensa e le riguarda come argomento, agente, sperimentatore: sono furioso, sono triste, sono gioioso, ecc.
  • più il movimento emozionale è forte, più l'ego è lento a ricostituirsi: è "scavalcato" e privo dei suoi riferimenti, questo istante di smarrimento può essere una fortuna spirituale. Il silenzio, il vuoto, lo spodestamento sostituiscono il tumulto e, non avendo più niente da afferrare né a cui aggrapparsi, l'essere all'estremo delle risorse può trovarsi infine faccia a faccia con la sua vera natura, il "re è nudo".
Si deve affondare nella vacuità del cuore e realizzare questo vuoto non come un nulla, non come una pausa provvisoria o un rifugio consolatore ma come l’essenza originaria e immateriale, - ciò che Abhinavagupta chia-mava il più alto immergersi, o riassorbirsi, nella pura energia soggettiva.
È allora la "Riconoscenza" un ritrovare, ma in un modo inatteso, un essere caro, dopo una lunga separazione.
La maggior parte di questi mezzi di risveglio sono in qualche modo forniti dalla vita ed non li si può provocare, li si può solamente accogliere per trasformarli quando spuntano. Se hanno il favore degli shivaiti, è proprio a causa di questo carattere non costruito, non mentale, non prevedibile, rispetto ad altri procedimenti.
La conoscenza approfondita dei chakra, delle nâdi, altrimenti detta del corpo energetico, fa parte di questa tradizione, anche se la descrizione che ne dà differisce talvolta di quella delle scuole meglio conosciute in Occidente.
  •  i chakra, (se ne distingue essenzialmente cinque) sono intesi come"ruote" vorticose e vibranti;
il cosmo in sé è una Ruota immensa, omogenea e perfetta di cui il mozzo è la Coscienza divina, Cuore uni-versale. Questa dottrina è sviluppata soprattutto nella scuola Krama.


  • le nâdi - nella stessa prospettiva dinamica - non sono dei condotti statici ed identici per tutti, per cui l'energia circola ma delle "correnti", dei "flussi" che si deve imparare a captare, a vivificare, a dilatare o ad acquietare, particolarmente a partire dal cuore.
  • Lo spostamento di queste energie molto sottili è descritto di buon grado come un brulichio ed il Vijñâna-Bhairava (66) fa anche allusione alle tecniche di sfioramento o di "solletico" delle ascelle o di altri luoghi particolarmente sensibili per suscitare lo sboccio della coscienza.
  • per comprendere l'affinità tra la sensibilità tattile ed i cuori, bisogna riferirsi al sistema di corrispondenze tra gli elementi (bhûta), le facoltà di sensazione e di azione, indriya, ed i chakra. Il cuore corrisponde all'a-ria, al tatto alla “facoltà di presa” ed alla pelle, così come alla facoltà di godimento ed al sesso, se si segue il Satcakranirûpana, ma questo punto di vista non è comune a tutte le scuole.
  • In quanto al cuore, quando non è visualizzato come una ruota radiosa a dodici petali, è descritto come un cofanetto rotondo e cavo, fatto di due loti intrecciati,: il loto superiore, secondo un commento, raffigura la conoscenza ed il loto inferiore, l'oggetto, conosciuto; tra essi, nel vuoto intermedio (madhya), risiede il soggetto che conosce (V.B). 49.
Si esalta, con termini come kha, hridâkâsha, vyoman, antarvyoman, paravyoman, la "distanza del cuore", l' "etere del cuore", la "volta" o il "firmamento del cuore." Espressioni che valgono più per il loro potere evocativo che per il loro rigore dottrinale. Rinviano alla nozione connessa al doppio senso di "mezzo" e di "vacuità", il mozzo vuoto della ruota che fa girare la ruota: è uno dei sensi del resto del parola kha, e ci si potrebbe chiedere certo, in buona ortodossia vedantica, che cosa significhi veramente uno "spazio vuoto", (un "contenente senza contenuto").


Bisogna specificare altra parte che la "vacuità" nella dottrina Trika è differente da quella che si incontra nei te-sti Mâdhyamika, sebbene alcune influenze reciproche non siano escluse e che, su un piano operativo, il tantrismo, indù ed il tantrismo buddista offrono delle grandi similitudini. Non si tratta qui di svuotare dall'essere, eliminare il Sé che resta indistruttibile, insostituibile per gli indù perché si confonde con la Coscienza stessa, ma di svuotare "questo essere", se si può dire, di tutto questo ciò che è "oggettivo", mentale o materiale, nome-e-forma), consiste nello "dis-oggettivare".
  • "la vacuità è la Coscienza che, riflettendo su sé stessa, si percepisce come distinta da tutto, l'oggettività dicendosi: "non sono ciò (neti, neti)." Tale è lo stato più elevato al quale accede lo yogin", Tantrâloka VI, 10. Gli indù non rinunciano mai al Sé ma essi non lo concepiscono neanche come un limite. Il Sé è essere al tempo stesso sia il non-essere, che oltre all'essere e non-essere, oltre alla pienezza e vacuità
Ciò richiede un'arte.
  • Rievocare, per mezzo della bhâvanâ, la vacuità in non importa in quale punto del corpo, in modo istanta-neo ed abbagliante;
  • o stendere questa vacuità all' "oggetto corpo" tutto intero; meditare su questo come se non contenesse niente al'interno, la pelle è solamente un "muro", una pellicola diafana tra due vuoti, ecc.:
  • tutto ciò, in una certa misura, si apprende ma cozzerà spesso contro resistenze insospettate. L'individuo non accetta facilmente di lasciare la prigione che lui stesso si è costruito.


Una cosa è giocare filosoficamente con l'idea della vacuità ma è un'altra questione realizzarla direttamente nel proprio corpo e nel proprio mentale, fino a non essere più che una forma vuota, un'energia senza contorni, senza limiti, risplendente e vibrante. Richiedono un'arte anche le pratiche del respiro quando sono interiorizzate e non ridotte ad un semplice vir-tuosismo respiratorio in vista di ottenere dei "poteri."
  • Il respiro respirato (prâna in questa tradizione) parte dal cuore e va' a morire in un "punto" localizzato a dodici larghezze di dito dell'estremità del naso, il "dvâdashânta, esterno");
  • da questo punto, con l'ispirazione (apâna), il respiro ritorna riposarsi nel cuore: è là lo stadio elementare del metodo che, tuttavia, inseguito seriamente, porta già l'equilibrio e la quiete.
  • In un stadio ulteriore e superiore, il, respiro sarà verticalizzato, condotto dal cuore, in basso, fino alla coro-na della testa, in alto, il "dvâdashânta interno"),
  • l'espirazione essendo sempre concepita come forza ascendente e l'ispirazione come forza discendente. In questo trasferimento, del resto spontaneo, dell'orizzontalità alla verticalità, dall' ampiezza all'esaltazione,
  • si sarebbe tentati di scorgere ciò che altre tradizioni hanno chiamato il passaggio dai "piccoli misteri" ai "Grandi Misteri" .
Se la conquista del cuore esprime il ritorno allo "stato primordiale" o edenico, se equivale alla reintegrazione del centro dell'essere umano dove riflette il Centro supremo, allora si è obbligati ad ammettere che questo stato, per alto e meraviglioso che sia, rappresenta solamente una prima tappa dei "cieli" sopraformali simboleggiati nei chakra superiori, ed infine la vera trascendenza o "Liberazione" (moksha che segna la traversata della fontanella).
Nel Trika bisogna guardare più avanti, perché questa tradizione non stabilisce una gerarchia tanto netta tra i centri e non considera la progressione da uno all'altro in un modo tanto sistematico. 

  •  l'energia è dovunque - come la coscienza - e può sbocciare a partire da qualsiasi chakra. Se si raccomanda di svegliarla a partire dal cuore, è soprattutto perché questo centro, per sua natura "vuoto" e mediano, possiede spontaneamente un potere unificante che si trasmette senza sforzo a tutti gli altri
  • Ma, anche se si localizza Shakti nel cuore e Shiva nella fontanella, o l'inverso che si incontra anche, ciò non implica mai uno rapporto di subordinazione poiché Shakti è Shiva e Shiva è Shakti
Abbiamo parlato del movimento dei respiri. Sarebbe più giusto in fondo a parlare degli intervalli tra i respiri.
  • È tra questi difatti che il risveglio buca, sgorga e risplende, il movimento, l'alternanza ci mantiene sempre nella dualità. Intervalli dunque tra i respiri, (la parola"ritenzione" esprime male questi intermezzi)
  • quindi anche tra i pensieri, le percezioni, i desideri ed anche tra gli oggetti materiali, (tutto quello che è fa-glia, apertura, interstizio).
Si considera molto importante, quando un movimento psichico si ferma, da sé, per sfinimento, senza precipi-tarsi meccanicamente in un altro movimento, un'altra attività, un altra ideazione ma rimanendo in questo riposo, senza attesa e senza proiezione. La vacuità allora sperimentata cela un'incommensurabile energia, una potenzialità di risveglio, alla condizione sempre di non identificarsi a questo stato perché, nella prospettiva tantrica, ripetiamolo,
  • il vuoto non è estremo: è ancora un oggetto, dunque un ostacolo, finché ci si contrappone ad un argomento che si percepisce come "vuoto" e si percepisce sé come "essendo vuoto."
  • diversamente, bisogna essere capace di realizzare il sé vuoto come vuoto. Allora questo "vuoto-dal-vuoto" (espressione che si trova anche nello speculazione mahâyâniche) "può essere ribaltato" per riassorbirsi nella Pienezza, sentita qui non come il "contrario" del vuoto ma come Paramashiva, il senza-limite, la Totalità, la negazione di ogni negazione, dunque l'assoluta Positività.
Per questo sono importanti tutti gli intervalli tra gli stati di coscienza cioè l'inizio dei due stati che l'individuo conosce in quanto tale:
  • lo stato di veglia e lo stato di sogno, l'addormentamento è un passaggio inafferrabile per l'uomo ordinario tra il mondo degli oggetti sensibili ed il mondo degli oggetti mentali.
  • Ponendo la propria coscienza nel suono del cuore, ponendola attivamente perché, di fatto, questo trasferimento si produce da solo nel sonno, si ottiene la "padronanza dei sogni", questo significa la capacità di passare dallo stato passivo ed allucinatorio del sogno abituale, carico dei resti dello stato di veglia, allo stato, pienamente cosciente e spiritualmente diretto, del sogno lucido (V.B). 55.
  • L'altro passaggio, quello dal sonno al risveglio, non dovrebbe di meno trattenere l'attenzione.
Nello stesso modo che Shiva produce l'universo aprendo gli occhi e lo riassorbe chiudendoli, ogni individuo crea ogni mattina il suo proprio mondo svegliandosi e lo riassorbe addormentandosi.
Difatti il mondo non esiste indipendentemente dalla coscienza. L'oggetto appare con il soggetto, e sparisce quando il soggetto non c'è. Vegliando, sognando, dormendo senza sogni, passiamo di mondo, questo signi-fica da uno stato di coscienza, all'altro, e nessuno è più o meno "reale" dell'altro. Da un punto di vista estremo, l'universo non ha mai avuto inizio e non è mai finito per la semplice ragione che il tempo non esiste, non c’è un passato, che è un semplice fenomeno della memoria, ne’ il futuro, sempre proiezione della memoria, e neanche un presente (che, appena pensato, è già passato).

Non ci sono che istanti sempre "attuali", appena la coscienza li afferra questi non esistono più, non c'è una so-stanza chiamata "Tempo" che collegherebbe questi istanti tra loro, da nessuna parte.
L'istante, in verità, è solamente la "durata di un atto di coscienza." (Abhinavagupta, Tantrasâra, 60)
Questa coscienza unica "misura", sopporta le cose e presta loro una realtà. Lo yogî che non crede al Tempo, sa infilarsi nel vuoto interstiziale che divide gli istanti successivi, li disgiunge e li slega, per raggiungere il Cuore, l'istante-shock, l'istante eterno.


Al termine di questo viaggio al centro del Sé di cui abbiamo schizzato solamente alcuni aspetti, il pellegrino, diventato "re degli yogî" (yogîndra), avrà acquistato, senza veramente cercarlo, il doppio potere di Shiva: quello di ritrarre il mondo in uno solo punto, (samâdhi ad occhi chiusi: nimîlaramâdhi), e quello di manife-starlo, in una libera e totale espansione dei sensi, (samâdhi ad occhi spalancati: unmîlanasamâdh)i. Ed allora cosa gli resterebbe da compiere? Liberato di tutto, è libero da tutto. Niente gli è esterno. Percepisce tutto in lui come suo proprio Sé ed il suo corpo limitato è diventato il corpo cosmico di Bhairava, la "Meraviglia cosmica" (vapus). Uno con Shakti, indiscernibile da lei, "si conosce di per sé stesso." Nei confronti degli "altri" - che non vede più come realmente separati di lui - è solamente grazia, amore, sfavillio di doni e di favori. Se non è diventato ancora un "liberato in vita" (jîvan-mukta), la morte che non è altro, anche lei, che un intervallo e gli darà l'opportunità di fondersi infine nel Cuore di Shiva, il Molto-benefico.






liberamente tradotto da


LE COEUR DANS LE SHIVAISME TANTRIQUE DU CACHEMIRE


Pierre Feuga